Ripartire da OrwellIl futuro partito libdem e il legame inscindibile tra verità e libertà

L’incontro del 14 gennaio a Milano non deve limitarsi a una proposta di fusione tra movimenti e sigle, ma deve piuttosto creare un’unità politica e culturale capace di contrastare l’egemonia culturale bipopulista

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Sabato prossimo si terrà a Milano l’evento “Le sfide della liberaldemocrazia in Europa. Come rafforzare Renew Europe e Partito Democratico Europeo. L’unità dei liberaldemocratici”.

Al centro della discussione ci sarà il processo costituente di un partito liberale, riformatore ed europeista. “Un”, proprio nel senso di uno, non del rivestimento unitario di una delle tante biciclette e triciclette elettorali che il mondo liberale ha spesso sperimentato, in genere con poca fortuna e sempre con brevissimo corso.

E “partito” proprio nel senso di “partito”, cioè di un’istituzione che la retorica anti-politica e le distopie post-democratiche dell’Italia populista e sovranista (e prima ancora di quella qualunquista e manipulitista) hanno conferito nella discarica della storia come un ferrovecchio o un rifiuto tossico, per sostituirvi – sai che modernità – modelli di leaderismo trasformistico, feudalesimo plebiscitario e personalizzazione carismatica.

Quella di sabato – immagino che lo auspichino gli organizzatori, certamente lo sperano moltissimi aspiranti organizzati, come me – dovrebbe dunque essere una chiamata a raccolta di quelli che ci stanno. Sperando che ci stiano (stiamo) in tantissimi e in tantissimi presto si aggiungano. Inutile dire che la presenza confermata di Carlo Calenda e Matteo Renzi è molto promettente, non solo nel senso che è positiva e propizia, ma proprio in quello che va intesa come la promessa che indietro non si torna.

Visto che i liberali, come gli ebrei, se sono in due hanno tre opinioni, c’è da aspettarsi che sabato il tema politico della giornata sarà affrontato con un’ampia pluralità di accenti e di pensieri. Per quello che vale, mi permetto un caveat.

Da una parte la prudenza, dall’altra l’esperienza dovrebbero sconsigliare di impostare il discorso nei termini della fusione tra le diverse forze libdem o, peggio, della ricomposizione di un’area politica che il destino cinico e baro avrebbe, chissà perché, scomposto e disperso in un labirinto di sospetti e incomprensioni. Non è facendo somma e totale di quello che c’è o, peggio ancora, di quello che c’era e che non c’è più, che sarà possibile costruire un soggetto politico in grado di portare e reggere la sfida di una alternativa che non è semplicemente di governo, ma di sistema nell’Italia bipopulista.

Quando Marco Pannella, nel cuore della Prima Repubblica, capovolse la formula togliattiana e lamalfiana dell’unione delle forze laiche in quella di unione laica delle forze, col divertente calembour espresse il concetto che tutti i piccoli e grandi costituenti del partito che verrà (se verrà) dovrebbero meditare per non impelagarsi nelle stesse diatribe ideologiche e opportunistiche che hanno fatto per decenni del mondo liberal-democratico ufficiale un ricettacolo di malmostose solitudini, pedagogie sociali inascoltate e vocazioni gregarie ricompensate, a destra come a sinistra, con qualche seggio ad honorem.

Mutatis mutandis e seguendo il filo del discorso pannelliano, oggi non basta fare l’unione dei partiti e gruppi liberal-democratici (innescando peraltro la rinunciabilissima gara a chi abbia più quarti di nobiltà, più curriculum, più storia o più voti), ma serve creare un’unità politica liberal-democratica capace di allargarsi in partibus infidelium, di contestare e di contrastare l’egemonia culturale bipopulista e di risvegliare dal sonno dogmatico un’Italia politicamente instupidita e analfabetizzata dalla democrazia del Gratta-e-Vinci smerciata da agenti del caos e venditori di miracoli.

Serve insomma un partito che, partendo da chi ci crede, si apra a chi è disposto a ricredersi e che non si rassegni, neppure per stanchezza, al modello superfisso, quella fallacia economica perfettamente descritta da Sandro Brusco in un articolo di un decennio fa, che può tradursi, con lo stesso meccanismo, in una fallacia politica e che presuppone la natura rigida e immutabile sia della domanda che dell’offerta, sia dei bisogni che dei fattori produttivi, cioè – per stare all’oggetto del nostro discorso – sia di quello che la gente vuole che di quello che la politica deve darle, per guadagnarne il consenso.

Se si parte dal principio che l’Italia politica è quella che è, non potrà mai diventare qualcosa di meglio, anche se ci si dà da fare a organizzare i meno peggiori e anche se c’è qualcuno che si crede e riesce pure a essere diverso, ma nella torre eburnea di una diversità incomunicabile.

Se ci si rassegna all’idea – che ha per lungo tempo affascinato e infine perduto il Partito democratico – che basti essere l’adulto nella stanza, per moderare i capricci dei bambini, senza credere che i bambini possano crescere e che li si possa trattare da grandi, si finisce a bambineggiare e a mostrare riflessi senili e capricci infantili, esattamente come sta facendo la classe dirigente democratica, in cui il cinismo amorale di un mandarinato politico eterno e rotto a tutte le esperienze si fonde con la retorica dei tempi nuovi, della rifondazione o del “largo ai giovani” e, poi, con il rinnegamento di tutto quello che di decentemente riformista e seriamente di sinistra il Pd ha saputo essere nella sua breve storia.

Il vastissimo e spericolato programma di una rivoluzione civile e morale forse improbabile, ma certamente necessaria, se non si vuole che l’Italia diventi un parco archeologico di bellezze e occasioni perdute, è decisamente più serio del progetto apparentemente realistico di costruire una forza liberale di complemento in un sistema politico strutturalmente antiliberale.

Ciò che in Italia vince e comanda oggi è un distillato di disprezzo per i fondamenti stessi dell’Occidente politico: per l’universalismo dei diritti e la tolleranza, per il libero mercato e la società aperta, per un’idea non parassitaria e discriminatoria di equità, e per un concetto non poliziesco e inquisitoriale di giustizia.

Qualunque mostro politico abbia attraversato il cielo di questo scorcio di inizio millennio – da Putin a XI JinPing, da Trump a Chavez, da Farage a Bolsonaro – ha trovato in Italia beniamini entusiasti e estimatori sinceri.

Pensavamo, dopo l’11 settembre, che solo l’islamismo – un prodotto straniero – e la paura della morte potessero istigare alla sottomissione e al ripudio di sé. Abbiamo scoperto, in Italia, ma non solo, che ci sono prodotti politici autoctoni, come il sovranismo e il populismo, e viltà molto meno confessabili capaci di generare una sottomissione ancora più incondizionata, un odio di sé ancora più profondo e un’abiura ancora più servile.

Da dove partire, allora, in questo progetto di costruzione di un soggetto e di un progetto liberaldemocratico? Da Orwell: dal legame inscindibile tra verità e libertà e tra menzogna e oppressione e dalla consapevolezza che senza la riabilitazione democratica dell’Italia – di tutta l’Italia – non basta certo la supplenza dei seri, dei competenti e delle persone perbene per cambiare il corso degli eventi, come dimostra la gloriosa e triste storia del Professore Draghi a Palazzo Chigi.

Si tratta di qualcosa di molto diverso della rivendicazione formale e velleitaria di una vocazione maggioritaria. Si tratta di partire dalla coscienza tragica che la natura minoritaria, quando non marginale, delle idee e istanze liberal-democratiche non condanna solo i partiti di quest’area a un destino gramo, ma è la causa fondamentale del declino economico e civile dell’Italia e della crisi della democrazia italiana.

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