Il padreterno è liberaleIl libro di Nicola Porro su Antonio Martino è un’occasione persa

L’intento dichiarato è quello di rendere omaggio all’ex ministro degli Esteri di Berlusconi, intellettuale controcorrente che merita gli elogi dell’autore. Ma gli spunti interessanti vengono nascosti da una serie di divagazioni che mettono in secondo piano la figura principale

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Fëdor Dostoevskij l’aveva motivato un po’ meglio di Nicola Porro, nel suo libro “Il padreterno è liberale” (Piemme), perché senza scomodare il Principale, aveva attribuito a Cristo il ruolo del liberale eversivo. È lo straordinario capitolo de “I fratelli Karamazov” dedicato al Grande Inquisitore, che fa incarcerare a Siviglia il Cristo ritornato sulla terra, perché non porti di nuovo scompiglio con le sue idee di libertà.

Ma ignorare il copyright non è il punto critico principale del volume del vicedirettore del Giornale e conduttore di una trasmissione tv che ha qualche merito, ad esempio quello di aver raccontato molto bene, nell’indifferenza degli altri media, la triste vicenda Palamara.

Il problema è che il libro cerca troppi bersagli polemici contemporaneamente e finisce per essere dispersivo. L’intento dichiarato, e cioè un legittimo e commosso omaggio ad Antonio Martino, viene annegato in una serie di divagazioni spesso troppo rancorose, su destra e sinistra, liberismo e liberalismo, che finiscono per mettere in secondo piano la testimonianza sul ministro degli Esteri del primo governo Berlusconi, recentemente scomparso.

È un peccato, perché non mancano approfondimenti e riferimenti anche inediti di indubbio interesse, dato che Porro è stato suo collaboratore diretto alla Farnesina nella breve vicenda di quel Governo, che pagò quasi subito l’azzardo di un progetto che pure aveva sconfitto alle elezioni la macchina da guerra di Achille Occhetto, grazie all’acrobatica alleanza al Nord con i secessionisti bossiani e al Sud con i nazionalisti di Alleanza Nazionale. Un ossimoro politico.

Vero è che in seguito avremmo visto di peggio, con il tutto e contrario di tutto dei due esecutivi di Giuseppe Conte (per non dire dell’attuale tragicomica versione progressista), ma una cosa del genere – a ripensarci – era davvero l’inizio della fine della politica, che tuttora stiamo pagando. Perché quando si abbandonano i fondamentali, inseguendo favole nuoviste, si finisce solo per perdere la bussola e risvegliarsi populisti.

Un tale disinvolto modo di mettere insieme un Governo vincente nelle urne – furono Bossi e Buttiglione ad abbatterlo dopo pochi mesi – dovette comunque piacere molto a Martino, perché il professore siciliano era un delizioso anticonformista, che godeva ad essere controcorrente.

Non a caso, nell’Italia già allora pseudokeynesiana, dominata dal pensiero unico di Franco Modigliani e dei suoi seguaci, fino a Mario Draghi compreso, Martino aveva scelto il posizionamento accademico più scomodo, quello del seguace di Milton Friedman, un premio Nobel mai digerito dall’intellighenzia italiana che disconosceva il liberalismo e in economia aborriva acriticamente il liberismo.

Quando uscì – tanti anni dopo – un libro di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi intitolato “Il liberismo è di sinistra” l’avevamo appena acquistato in libreria quando incontrammo casualmente per strada il professore e sadicamente glielo mostrammo, attenuando l’offesa con un parere negativo sulla scelta del titolo (era meglio dire liberalismo, non liberismo) ma Antonio – che era un gran signore – abbozzò solo un sorriso che nascondeva una smorfia. La parola sinistra lo faceva star male.

Per lui, il liberismo di Friedman, come il Porro biografo racconta bene, era stata una scelta di vita, una sliding door che lo aveva bloccato a Chicago al seguito del grande economista americano.

Antonio Martino, oltre ad essere un gran signore, era una persona davvero di qualità umana e intellettuale straordinaria. Un liberale autentico, anche quando era difficile condividere le sue opinioni, comunque mai banali. Amava forse fin troppo lo scandalo intellettuale e di questo eccesso è prova, soprattutto nell’ultima parte della sua vita, lo scetticismo sull’Europa, che andava ben oltre la giusta critica sulle istituzioni di Bruxelles.

In una delle sue ultime uscite pubbliche, forse proprio l’ultima, invitato da uno pseudo Partito Liberale europeo, uno dei tanti velleitari tentativi di organizzare improbabili liberali, gli sentimmo dire in streaming, cose terribili, che lasciarono sconcertati gli stessi organizzatori, che fino a pochi minuti prima, avevano sciorinato tutto il consueto bagaglio retorico in materia. Sembrava quasi emergere un complesso conflitto psicologico postumo con il grande padre Gaetano Martino, fondatore dell’Europa dei trattati.

Ma Antonio era fatto così, ti disarmava con il suo sorriso gentile, con il suo garbo, con i modi antichi e cortesi. Non potevi non volergli bene, anche se il Martino politico era diverso, forse inadatto a questa funzione, pur esercitata per cinque legislature e tre mandati governativi.

Doveva essere molto arduo conciliare il suo anticonformismo con un partito padronale come Forza Italia, tutto obbedienza, devozione, cori e musichette, quanto di più lontano dalla sua mentalità. Ma la politica, con certe sue comodità se sei nella fase ascendente, è anche dolorosa contraddizione, vedi alla voce Meloni.

Sta di fatto che la parabola da tessera numero 2 del partito all’emarginazione, è stata quella di un progressivo distacco fino alla rinuncia finale. Esito che ha peraltro riguardato un po’ tutta la pattuglia dei liberali del centrodestra, inizialmente blanditi ma poi evocati solo come ipotesi identitaria da sventolare nelle convention.

Nicola Porro nel suo libro, evoca con toni elegiaci il Congresso del Pli del 1988, del quale Antonio Martino fu protagonista con una candidatura improvvisata alla segreteria, contro Renato Altissimo, ma trascura il dato politico della strumentalizzazione di questa scelta da parte della minoranza del partito, che mandò il professore allo sbaraglio. Ciò non toglie che Martino sostenne la parte con grande dignità e alta qualità intellettuale. Il suo fu un discorso di pregio, senza le smussature che avrebbe poi usato nelle battaglie interne di Forza Italia. Accadeva nella Prima Repubblica che i congressi conoscessero momenti di questo valore anche morale, con intensità ed emotività sconosciuti a chi nei decenni successivi li ha sostituiti con le file ai gazebo.

Ma Porro non ricorda come fu sconfitta l’opzione liberista, per quanto apprezzata dalla platea che non era un parco buoi come fa pensare l’autore. Parlò, in replica, Valerio Zanone, ottenendo un’ovazione decisiva quando respinse l’idea che nella società e nell’economia dovesse prevalere il metodo della Rupe Tarpea, che elimina cinicamente chi non ce la fa in una selezione inesorabile e irreversibile.

Un pensiero in continuità con quello di Giovanni Malagodi, che nelle sue relazioni fiume ai convegni giovanili liberali (in una di esse dedicò almeno un’ora all’esegesi di quel Cristo “liberale” che ricordavamo all’inizio) aveva elaborato la tesi della “Libertà nuova” in cui – anni Sessanta del secolo scorso – evocava già la sfida dell’innovazione informatica e climatica.

Ebbene, Malagodi (a lungo presidente dell’Internazionale Liberale ed autore del brillante aggiornamento del relativo Manifesto) in una di quelle occasioni criticò a fondo quelli che definì con efficacia i “liberali oligarcici”, cioè quei liberali elitari e sdegnosi indisponibili al confronto con i diversi da sé. Per questo, appare francamente offensiva non tanto la battuta, molto martiniana, del Malagodi “non liberale”, quanto la sua accettazione da parte di Porro, che defiinisce “deriva socialista” l’atteggiamento dello storico segretario liberale. Una cosa surreale, fuor d’opera.

In quel Congresso, respingendo la “rupe Tarpea”, Valerio Zanone evocava semplicemente un liberalismo diverso, applicato da segreterie che hanno riportato il Partito Liberale Italiano al Governo in nome di un dialogo tra laici e socialisti, ed è singolare che Nicola Porro metta sullo stesso piano l’opzione di stare al Governo, che è la legittima finalità della politica, con l’essere statalisti.

Per non cadere in contraddizione, Porro accompagna la critica aspra e ingenerosa verso un Partito, il Pli, che è stato al governo complessivamente pochi anni, con solo una flebile riserva verso Forza Italia, nonostante il ventennio ministeriale berlusconiano, ma alla fine tutto si risolve troppo semplicisticamente con la motivazione che “non hanno consentito” a Berlusconi di fare come voleva.

Eppure, lo stesso pentapartito molto criticato, è uno sbocco della crisi italiana dopo il fallimento del compromesso storico, dal quale il Partito Liberale di Zanone si era tenuto lontano, unico ad opporsi.

Da un giornalista cresciuto in una redazione guidata dal rigore di Paolo Battistuzzi forse sarebbe stato giusto attendersi una ricostruzione meno faziosa.

Ciò non toglie che il libro meriti attenzione, con alcune chicche molto interessanti, ad esempio l’ultima intervista a Antonio Martino, in cui l’economista inanella una serie di giudizi non proprio ortodossi, sempre stimolanti.

L’ambientalismo? Una «bestia tremenda», peggio del marxismo. Per non dire del «climatismo» e del «sanitarismo», che ha chiuso la gente in casa. Guido Carli? Non certo un liberale e poi «neppure un granché». La Confindustria? Un’accolita di seguaci di Federico Caffè, che a sua volta rincorreva i propri studenti di sinistra. Il Partito Liberale? I veri liberali ne erano fuori, dentro c’erano solo quelli di sinistra, in particolare i giovani. Berlusconi? Inadatto alla politica, intenzionalmente senza buoni collaboratori. La capacità di scegliere imbecilli l’ha sempre avuta. La Fondazione Einaudi? Un’associazione a delinquere, perché Malagodi non era liberale, salvo nel 1963. I cattolici? Sciocchi in politica, confondono la carità con lo statalismo. Olivetti imprenditore illuminato? Le sue macchine da scrivere facevano schifo. Gli intellettuali? Esistono, ma sono antipatici.

Difficile invece provare antipatia con un intellettuale controcorrente come Antonio Martino, che tra le varie attitudini liberali, sceglie forse quella più identitaria, la provocazione come frutto ma anche come premessa del dubbio, il più sicuro indizio del liberale autentico. Lo ricordiamo anche noi con nostalgia.

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