Partita apertaI broadcaster della tv sfidano le piattaforme dello streaming in casa loro

L’online sta conquistando spettatori anche in Italia, proprio mentre i giganti dell’on demand stanno rallentando. Si aprono più spazi per Vivendi, Sky, Mediaset e le emittenti europee, ma approfittarne non sarà facile

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La mossa a sorpresa con cui lunedì scorso il ceo di Vivendi Arnaud de Puyfontaine si è dimesso dal cda di Tim è solo l’ultimo segnale in ordine di tempo del fermento del sistema media europeo. Il gruppo francese vuole accelerare i tempi del disincaglio dalla palude della telco italiana proprio perché è sul fronte delle tv che oggi si concentra l’attenzione.

D’altra parte le guerre di posizione, anche nella finanza e nell’industria, logorano molto e pagano poco. E invece è tempo di muoversi. Per questo alla fine lo scorso luglio ha lasciato via libera a Mediaset in Spagna per l’avvio della fusione di Mediaset Espana in Media for Europe (Mfe), la holding del Biscione che controlla gli asset italiani, spagnoli e i tedeschi di ProSieben. E il segno della nuova strategia è arrivato la settimana scorsa, quando Vivendi ha annunciato l’acquisizione, attraverso la controllata Canal+, della francese Ocs, braccio operativo della telco Orange (la ex France Telecom) nel settore delle pay tv.

Ocs è la seconda pay tv francese proprio alle spalle di Canal+ e ha in portafoglio i diritti per la Francia dei contenuti di Hbo, come dire la Sky americana, ma molto più grande e parte della famiglia Warner Bros – Discovery, con titoli come Game of Thrones. In più sono ritornate le voci, che periodicamente riemergono, circa l’interesse ancora di Vivendi per Sky Deutschland.

Tutto questo sta accadendo perché da una parte la streaming tv online sta consolidando la sua presa nei salotti delle famiglie dei grandi mercati Usa e europeo, proprio mentre i giganti del settore, Netflix su tutti, danno segni di indebolimento. Per capire queste nuove dinamiche possiamo anche partire proprio dall’Italia.

Ci sono stati seicentomila spettatori che hanno visto la finale dei Mondiali di calcio Argentina-Francia su RaiPlay, la piattaforma di streaming di casa Rai, Quasi il cinque per cento del totale dei tredici milioni di spettatori che hanno seguito la partita in diretta.

Un dato che supera di oltre il trenta per cento i numeri del Mondiale 2018. Tre giorni dopo, mercoledì 21 dicembre, l’etere italiano ha mandato in pensione il vecchio sistema Mpeg2, attivo da trent’anni, passando all’Mpeg4: tutta la tv italiana è passata all’alta definizione e potrà offrire sul mercato, a spettatori e investitori pubblicitari, immagini di qualità migliore, seguendo lo standard ormai imposto dalle tv streaming come Netflix, Prime o Disney.

Non solo: secondo le ultime rilevazioni Audiweb sul comportamento e sui consumi degli italiani in rete, arrivati ormai a quasi cinquanta milioni di utenti unici, con una media giornaliera di 36,6 milioni, ossia il sessantadue per cento della popolazione, tra le tipologie di contenuto online cresciute di più ci sono proprio siti e app delle tv tradizionali. Nonostante tutto ciò, però, per il mondo della tv questo non è un bel periodo.

Inflazione, crisi energetica e incertezze globali minano la voglia di spendere delle famiglie e questo si traduce da una parte in una contrazione degli investimenti pubblicitari – quelli della vecchia tv che viaggia sulle antenne – e dall’altra riduce l’appetibilità delle nuove offerte on demand delle piattaforme via streaming, dove la concorrenza è sempre più numerosa e agguerrita.

Netflix ha smesso di crescere da inizio anno e solo a fine settembre ha visto il numero di suoi abbonati nel mondo risalire di tre milioni di unità. Ma al tempo stesso ha registrato un primo calo dei ricavi, segno che il mix tra aumento degli abbonamenti standard e introduzione di quelli scontati con l’inserimento di spot pubblicitari non ha dato il risultato sperato, almeno per ora. Disney+ continua a crescere, è arrivata a centosessantatré milioni di abbonati nel mondo, ma negli Stati Uniti sta introducendo la pubblicità per lanciare delle offerte low cost.

Il fatto è che ci si sta rendendo conto che la crescita degli abbonamenti non può essere infinita. E che la tv non è la telefonia mobile, dove il limite ultimo è dato dalla popolazione del globo. Qui si parla di consumi che attengono solo ai mercati più ricchi: un bacino attorno agli ottocento milioni di persone. Netflix e Disney ne valgono da soli quattrocento, Amazon è stimata sui duecento. Certo, sono costi unitari relativamente bassi, in media, per i mercati più affluenti e pochissimi hanno un solo abbonamento.

Se la crescita degli abbonamenti è finita, allora la competizione si concentra sui soli mercati ricchi, Europa e Stati Uniti. Le web company dello streaming devono cercare di togliere mercato alle tv tradizionali, via etere, satellite e cavo. Ma non sarà facile perché anche queste ultime hanno accettato la sfida della tv online.

Fino a dieci anni fa la tv terrestre stava per conto suo e si alimentava di sola pubblicità. Il satellite e il cavo erano il regno deputato della pay tv. Poi internet ha travolto ogni barriera e tutto oggi converge in un unico mercato. «Tutta la tv va verso lo streaming», spiega Augusto Preta, direttore di It Media Consulting, enumerando i risultati di un suo studio appena completato. «Oggi in Italia meno di una famiglia su due guarda la sola tv gratuita via etere, e tra due anni saranno appena poco più di una su tre (trentasei per cento). Gli utenti che pagano la pay tv sono già oggi all’ottanta per cento gli abbonati alle piattaforme streaming e solo il venti per cento alla pay tv satellitare. Anche se i ricavi delle piattaforme online, i cui abbonamenti costano molto meno, sono solo il cinquantotto per cento del totale».

La competizione è in atto e su questa grava il fatto che c’è una risorsa scarsa da conquistare: è il tempo degli spettatori, che non è infinito. In compenso sono saliti i costi di quella “materia prima” pregiata che sono i contenuti video.

Accaparrarsi serie tv, film e eventi pregiati costa sempre di più. La Rai, per esempio, ha speso duecento milioni, tre anni fa, per i diritti sui Mondiali del Qatar, mentre per quelli di Russia 2018 Mediaset non arrivò a superare gli ottanta. Il Biscione riuscì comunque a guadagnarci, mentre l’effetto sui conti di Viale Mazzini dovrebbe portare qualche sofferenza. Anche perché la raccolta pubblicitaria delle tv in questo 2022 si chiuderà con un ennesimo segno meno: i primi dieci mesi sono a meno 7,9 per cento. Rai li ha chiusi con un meno diciassette per cento sullo stesso periodo del 2021. Poi, con i Mondiali, avrebbe superato il livello dello scorso anno di una trentina di milioni. Pochi comunque.

Il nodo di fondo resta uno: quali mezzi e quali risorse possono disporre i gruppi media europei, e italiani per quanto riguarda la nostra parte, per fronteggiare il rischio che la concorrenza di Netflix, Amazon e di Disney li mandino progressivamente fuori mercato?

I numeri in apparenza sono tutti a favore delle Company americane. Netflix l’anno scorso ha investito diciassette miliardi di dollari in contenuti e quest’anno ne spenderà altri quindici. Disney segue a ruota con tredici miliardi circa per ciascun anno. Ma sono tempi grami anche per loro e i segnali ci sono tutti. Disney ha appena sostituito il ceo Bob Chapek richiamando il suo predecessore Robert Iger: motivo, marginalità in forte calo e titolo che ha perso il trentaquattro per cento da un anno fa.

Di Amazon, il cui titolo è giù del quarantasei per cento in un anno, come di consueto, si sa pochissimo, ma gli analisti finanziari americani iniziano a ipotizzare scenari con taglio di costi: finora avrebbero colpito gli investimenti su Alexa e l’intelligenza artificiale, ma il prossimo passo dovrebbero essere proprio le spese per i contenuti video per Prime.

Con la guerra dei costi che erode i margini non va meglio a Netflix, ugualmente in calo del trentasette per cento: la frenata di abbonati e ricavi apre scenari incerti e la mossa della pubblicità per ora non sembra aver portato i risultati sperati. Anzi sembra che la società abbia dovuto rimborsare alcuni investitori pubblicitari per non aver raggiunto gli obiettivi prefissati.

Come rispondono i gruppi europei? Rafforzandosi nei singoli mercati nazionali dove sono presenti e cercando sinergie a livello continentale. Di Vivendi si è detto. Quanto al gruppo Sky, ora braccio europeo di Comcast, con i suoi ventitré milioni di abbonati in sei Paesi (Regno Unito, Irlanda, Italia, Germania, Svizzera e Austria) resta un attore di prima grandezza. Germania e Italia in questa fase zoppicano, e a tenere su i conti è la parte britannica, specie con la vendita di connessioni a banda ultralarga in fibra.

Ora bisogna vedere come andrà il lancio in corso in queste settimane in Italia (ma non ancora in Germania) di Sky Glass, in pratica il decoder Sky Q con tutto il televisore. Mossa importante, intanto perché nasce negli Stati Uniti dall’accordo tra Comcast e Charter Communications: numero due negli Stati Uniti come operatore di rete via cavo dietro alla stessa Comcast e numero tre, dietro Comcast e AT&T, per abbonati di pay tv. L’idea è di mettere al centro dell’offerta una piattaforma tecnologica che risieda a casa degli utenti e che diventi l’interfaccia della famiglia nella gestione dei diversi contenuti video. Un aggregatore che semplifichi la vita e anche i pagamenti, magari con sconti, in attesa che l’evoluzione dell’intelligenza artificiale e della domotica 5G non renda questo presidio hi-tech domestico ancora più strategico.

Sulle piattaforme si sta muovendo anche Mediaset, anzi, Media for Europe, Mfe. Il progetto del Biscione di varare un gruppo europeo è in piedi da tempo ma ha subito vari stop in Spagna e Germania. Ora però si sta sbloccando. In Spagna dal 6 gennaio scorso potrà procedere con la fusione nel gruppo di Mediaset Espana: non ci sarà fretta ma si farà probabilmente entro il 2023. In Germania l’intenzione è di restare quel filo al di sotto della soglia Opa del trenta per cento in ProSieben ma puntando a rafforzare la partnership di fatto tra gli asset italiani, spagnoli e tedeschi.

L’idea maturata a Cologno è che non sia più tempo di acquisizioni finanziarie ma di integrazioni tecnologiche. Il progetto è quello di una piattaforma in grado di integrare e far dialogare le diverse tecnologie di distribuzione (terrestre, cavo, satellite, web) e di gestire poi i contenuti di diversi operatori.

La piattaforma avrà anche un ruolo non secondario nella distribuzione della pubblicità, grazie ai nuovi formati “creativi” che il digitale può offrire e alla progressiva personalizzazione degli spot su base territoriale e anche più capillarmente ancora. Un’attenzione al mercato pubblicitario che a sua volta ripaga Mediaset, che in Italia è il soggetto che va a chiudere meglio questo 2022: ricavi da spot in calo, ma molto meno degli altri. Con un mercato che scende del 7,9 per cento da gennaio a ottobre, Mediaset perde solo il 2,9 per cento, Rai perde il diciassette per cento, Sky il diciotto, La7 il 3,6 e solo Discovery riesce a crescere dello 0,6.

Che cosa serve a questo punto? Che la tv italiana completi definitivamente la sua digitalizzazione. L’arrivo dell’Mpeg4 non basta infatti perché mantiene ancora separato il mondo della vecchia tv che arriva via etere, terrestre o satellitare, dal mondo online.

Il telecomando è ancora separato dalle app: sembrano due mondi diversi ma sono entrambi sullo stesso schermo e si rivolgono agli stessi utenti nello stesso arco di tempo. La tecnologia delle piattaforme può integrare i due mondi ma c’è ancora strada da fare.

Le tv connesse in Italia, tra nuovi modelli e decoder, sono meno di quindici milioni, siamo attorno al trenta per cento. E se anche aumentassero velocemente resterebbe il problema della connessione a banda ultralarga nelle zone bianche.

Un ritardo che sta rallentando anche l’adozione del nuovo standard Dvbt2, il digitale terrestre di seconda generazione, che aumenta l’integrazione con il mondo online e che tra l’altro diminuisce il fabbisogno di banda dei canali tv terrestri. E pensare che da luglio scorso i broadcaster, Rai e Mediaset in testa, hanno consegnato alle telco le frequenze da destinare al 5G, con il risultato che per far diventare tutti i canali ad alta definizione in uno spettro radio ridotto tutti hanno fatto i salti mortali e hanno adottato in molti canali minori una sorta di alta definizione ridotta, che non va proprio nel senso richiesto dal mercato quanto a qualità di immagini.

Ma il mercato si muove comunque: Auditel già rileva in Italia lo share dei canali online e presto rileverà anche gli ascolti di Netflix, Disney+ e di chiunque voglia accedere al mercato pubblicitario. Lo streaming sarà sempre più lo standard dominante e il mondo dei broadcaster via etere deve farsi trovare pronto.