“Baìo! Baìo!”. Accompagnato dal rullare dei tamburi, il richiamo comincia a echeggiare dalle prime ore del mattino, nei vicoli di Sampeyre, per inseguirsi in crescendo lungo tutta la giornata. Oggi è il gran finale, in questa estrema propaggine della Valle Varaita protesa verso la Francia: preceduto dai festeggiamenti delle prime due domeniche del mese, è il culmine della tradizione più antica e colorata delle Alpi occitane, che si celebra dopo una lunga attesa. Preparata, discussa, fantasticata per mesi e anni nelle famiglie e negli incontri al bar e nei consigli comunali. Prevista con cadenza quinquennale, l’anno scorso la Baìo era saltata per via del Covid che anche qui ha colpito duro, e il suo ritorno, se non il superamento definitivo dell’emergenza, segna il ricongiungimento di una comunità con sé stessa attraverso il tempo che riprende a fluire e, invece di allontanarlo, rinsalda il legame con le radici.
Sorvegliata dalla mole incombente del Monviso, la festa va in scena in contemporanea a Sampeyre e nelle frazioni di Rore, Calchesio e Villar: oggi le quattro Baìe si incontrano nel paese capoluogo (“Piasso” nella lingua locale), prima di tornare nelle rispettive basi per l’atto conclusivo. Sono quanto resta di una tradizione un tempo largamente diffusa, dalle valli occitane alle Langhe al Monferrato, ma colpita nel 1834 dal veto imposto da Carlo Alberto che ne diffidava in quanto sottratta al controllo statale come a quello della Chiesa. Soltanto poche sopravvissero, per poi ulteriormente diradarsi, grazie a un sotterfugio causidico: ossia accettando di sciogliere le associazioni organizzatrici (le Baìe, appunto: il nome deriva da abbazia-abbadia-badia, come si chiamavano nel Medioevo le compagnie dei giovani che parodiavano i riti cenobitici sostituendoli con canti e balli) ma senza rinunciare alla festa. Che anche oggi, con il comune di Sampeyre ridotto a un migliaio di abitanti (a metà Ottocento erano seimila) attira un gran pubblico dai dintorni e richiama dalle città e dalla vicina Francia i discendenti di quanti se ne erano andati in cerca di fortuna.
La Baìo cade di Giovedì grasso, ma non è una festa di carnevale. La vulgata corrente – riscontrabile anche su Wikipedia – ne fa una rievocazione della cacciata dei saraceni intorno all’anno Mille, ma non è nemmeno questo. Lo sottolinea Gianpiero Boschero, avvocato e ferrato cultore della storia locale, quest’anno alla sua undicesima Baìo di cui da mezzo secolo redige anche il resoconto in bella calligrafia: l’unico riferimento alla presenza dei “mori” in quell’epoca è nel Chronicum novaliciense, scritto da un anonimo monaco benedettino nell’XI secolo e conservato nell’Archivio di Stato di Torino, dove si racconta che all’inizio del 900 i saraceni avevano creato un minuscolo regno basato a Fraxinetum, l’attuale La Garde-Freinet nell’entroterra di Saint-Tropez (la toponomastica ne conserva traccia nel Massif des Maures), spazzato via pochi decenni dopo dalla reazione della nobiltà franco-piemontese; ma tra le mete delle loro scorrerie nelle diverse valli, di cui resta il ricordo anche nel ricorrente cognome Mauro, né nel Chronicum né in alcun altro documento è mai citata la Val Varaita. Nell’archivio comunale di Sampeyre la storia dei saraceni e della loro cacciata, in cui probabilmente si condensa lo spauracchio ottomano che per secoli ha assillato l’Europa, compare per la prima volta nel 1905, liberamente ripresa dal libro La castellata di un certo Claudio Allais, parroco di Pontechianale alla fine dell’Ottocento, e da allora è diventata la narrazione canonica.
In realtà nella Baìo confluisce una varietà di motivi depositati nei secoli sul nucleo di un’antichissima cerimonia pre-cristiana propiziatoria dei nuovi raccolti. Per coglierne le stratificazioni bisogna guardare ai personaggi che sfilano a coppie letteralmente ricoperti da centinaia di nastri di seta multicolori a motivi floreali – i bindel gelosamente tramandati nelle famiglie come un bene prezioso -, al ritmo dei Tambourin (i tamburini) e al suono di violini, fisarmoniche e clarinetti, con frequenti interruzioni per improvvisati balli di strada che sono la versione occitana delle danze in voga nell’età barocca.
È in particolare sui copricapi che bisogna soffermarsi. A quelli degli Arlequin, il servizio d’ordine della Baìo, sono appesi gusci di chiocciola, indizio dell’origine ctonia di questa figura che prima di diventare una maschera della Commedia dell’Arte era un demone legato ai riti di fertilità. La mitra degli Uzouart (le guardie ussare) è la stessa dei vescovi cattolici, con l’aggiunta di specchi e bindel, così come le feluche degli Abà, i capi della festa, conservano il ricordo di quelle napoleoniche allusive alla liberté rivoluzionaria, e il cappello degli Escarlinìe (scampanellatori), l’ultimo acquisito, evoca i bersaglieri entrati nell’immaginario in seguito alla guerra di Crimea del 1854.
Lungo il corteo le suggestioni si moltiplicano. I Sapeur (zappatori) armati di scure, reminiscenza dei militari del Genio, hanno il compito di abbattere le barriere di tronchi d’albero disseminate dai saraceni per coprirsi la ritirata, e ogni barriera fatta a pezzi è l’occasione per una pausa di balli e libagioni. I Grec dalle lunghe pipe fumanti (reinterpretati come i prigionieri dei saraceni liberati dai valligiani, al pari dei Moru) sono una memoria degli antichi legami dei signori del Piemonte con l’Impero bizantino (i Paleologi del Monferrato, il ramo sabaudo degli Acaja). I Turc che avanzano in catene ricordano il dopo-Lepanto, e forse anche il passaggio, nel 1483, del principe Zizim, figlio del sultano Maometto II, in marcia verso l’esilio parigino con la sua pittoresca corte itinerante. Infine lo stato maggiore della festa, gli Alum, sei figuranti eletti alla conclusione di ogni Baìo, che a due a due, in capo a un automatismo quindicennale, passano dal ruolo di Tenent a quello di Portabandiero per concludere la loro carriera come Abà: in coppia, appunto, come i consoli dell’antica Roma, o i sindaci di certi comuni medievali.
Le figure rappresentate, ognuna con una precisa funzione simbolica e tutte riservate all’interpretazione degli abitanti del luogo, sono oltre una ventina. A chiudere la sfilata, il Viei e la Vieio, il vecchio e la vecchia, che nonostante l’età avanzata ostentano una culla con infante, messaggio di apertura al ciclo vitale che continua. Entrambi sono interpretati da maschi, come pure la Espousa, la sposa, e tutti i ruoli femminili, nel solco della consuetudine teatrale classica. E proprio l’esclusione delle donne dal corteo ha provocato una piccola polemica, quest’anno, quando due violiniste valligiane hanno sfidato la tradizione proponendosi nelle file dei Sounadour: ma le regole sono regole, alla Baìo le donne partecipano sì, ma unicamente nei balli e chiedendo la grazia nel processo finale al Tezourìe (tesoriere) accusato di aver rubato il denaro della comunità.
Il processo al Tezourìe è il momento clou che conclude la festa in piazza e si celebra soltanto il Giovedì grasso. Si dipana in un serrato scambio di battute tra gli abitanti e l’imputato, che è anche l’occasione per portare alla luce certi malcontenti e piccoli gossip locali, a rischio talvolta di deragliare in qualche incidente di percorso: come quando venne fuori una storia di tradimenti coniugali, o quando si insinuò che un Tezourìe nascondesse i marenghi d’oro sotto il parrucchino e l’interessato, colpito nel suo vituperoso segreto in realtà noto a tutti, a lungo minacciò querele.
Eccezioni comunque divertenti. Nulla al confronto di quanto accadde nel 1863 a Casteldelfino, uno degli ultimi paesi della valle, quando un figurante vestito da cacciatore sparò a quello vestito da orso, come da copione: uccidendolo per davvero. O quel che avvenne l’anno dopo a Becetto, una frazione sopra Sampeyre, all’indomani della festa (che all’epoca non aveva una cadenza fissa), con una contesa alimentata dagli eccessi alcolici, durante la quale qualcuno ardì bruciare la bandiera della Baìo locale e alla fine ci scappò pure il morto, un giovane di 22 anni. Da allora a Casteldelfino la Baìo non si è più fatta, e a Becetto è ripresa soltanto nelle due ultime edizioni, ma restando esclusa da quella di Sampeyre. Dove tutto si svolge pacificamente e gli archibugi sono caricati a farina.
Archiviato il processo, dopo la condanna, la fuga, la cattura e infine la grazia del condannato (soltanto a Villar il Tezourìe viene passato per le armi; ma subito resuscitato con un bicchiere di quello buono), ogni tensione si scioglie nei brindisi giudiziosi e nei balli antichi che scaldano la notte. Courento, gigo, countrodanso, tresso: ed è subito mattino.