La sciocca “circolare” di una dirigente scolastica e le inopportune dichiarazioni con cui un ministro ha preteso di rintuzzarla potrebbero andare nella riserva dei piccoli strepiti che fanno pastura per un giorno di prime pagine e poi vaniscono lasciando spazio agli ennesimi: ma qualcosa di quella vicendina denuncia in realtà il fatto più profondo che l’ha determinata e di cui essa è manifestazione tanto sensibile quanto inavvertita.
E si tratta di questo: dello spaccio, in forma trash e di preteso accreditamento comunitario, di principi tradizionali e di esperimenti politico-letterari che possono essere studiati e condivisi se uno vuole, quando vuole e come vuole e che invece, secondo il ridicolo intendimento di quella circolare «bella e potente», come l’ha definita certo editorialismo zuccone, illustrerebbero il come si deve civile e democratico di ogni creatura subordinata alle grazie della Repubblica fondata sull’antifascismo, sulla letteratura contro l’odio, sui comunicati della Cgil e sui valori imperituri dell’Atac.
Evidentemente non è chiaro, ma evocare il «grande italiano» Antonio Gramsci e «la forza delle sue idee» nella compilazione della noterella protocollata a monito pedagogico sulla malignità delle frontiere e a raccomandazione dell’uso del nome giusto – fascista – con cui riferirsi al governo responsabile del «disgustoso rigurgito», significa scambiare il proprio improbabile convincimento e una dotazione culturale da cartiglio Bacio Perugina per altrettante verità buone per chiunque, col puntuale intervento dei laudatori democratici a reclamare per quelle rimasticature un meritato destino da libretto arcobaleno da mandare a memoria in tutte le scuole di ogni ordine e grado.
Il tutto, appunto, senza il più pallido sospetto che sulla «forza delle idee» di Gramsci possa ineccepibilmente organizzarsi un convegno tra leninisti e persino un corso di studio, a patto che sia facoltativo, e naturalmente una serata al ristorante tra la professoressa e i suoi colleghi di partito (presenza dei capilista pro Hamas da confermare): ma non, e sicuramente non senza che ci si prenda la dovuta scarica di pernacchie, il dispaccio progressista “Comunicazione n. 197” che inanella fesserie sulla scaturigine urbanistica del fascismo e sulla «sfiducia collettiva nelle istituzioni» e indugia sulla maturità delle condizioni, si immagina a far tempo dal 25 settembre dell’anno scorso, affinché anche qui da noi sbuchi e si rinforzi la pianta del totalitarismo.
Il guaio – e questo è il corrispettivo non meno inadeguato – è che il ministro non ha risposto come di dovere alla lettera della preside, cioè non rispondendo proprio in nessun modo o appunto invitandola a fare un seminario o un apericena falce e martello sulla «forza delle idee» di Gramsci, ma con divagazioni sulla politicizzazione delle scuole e vagheggiando non si sa quali rimedi di contenzione se altri si abbandonasse ad analoghe iniziative. Che, come dovrebbe capire chiunque, per collocazione istituzionale e lungimiranza didattica assomiglia abbastanza alla requisitoria contro il mondo che va a rotoli per le minigonne e i capelloni: e, per levatura liberale, al presidio spoliticizzante che preserva la gioventù granitica italiana dalla perfidia dell’insinuazione bolscevica.
E così la brochure resistenziale della preside a margine di una rissa che bisogna chiamare aggressione fascista, pestaggio squadrista, attentato alla democrazia non per doverosità di cronaca, ma perché altrimenti non si è abbastanza antifascisti, diventa da un lato la materia di irriducibile riflessione democratica da cui riparte la sinistra e dall’altro lato il temibile comunicato sedizioso cui opporre la fermezza del governo che riporta ordine nella scuola.