Con l’avvicinarsi del primo anniversario dell’invasione russa, giustamente, in molti hanno cominciato a rilanciare sui social network le infelici previsioni pronunciate un anno fa, alla vigilia dell’attacco, da tanti autorevoli analisti, politologi e geopolitologi. È sempre istruttivo riascoltare o rileggere il superiore disprezzo con cui si liquidavano le «fake news» americane circa un inesistente piano d’invasione russa dell’Ucraina, l’incrollabile assertività con cui si garantiva che in ogni caso gli Stati Uniti non ne avrebbero mai preso le difese, il tono oracolare con cui si tracciavano futuri scenari in cui Vladimir Putin non si sarebbe nemmeno sognato di spostare un carrarmato ed era semmai la Nato a provocare, accerchiare, assediare la pacifica Russia.
Rileggere e riascoltare tutto questo è sempre istruttivo, certo, ma non decisivo. A ben vedere, non ci dice nulla – dei nostri esperti, dei nostri giornalisti e in fondo dell’Italia – che non sapessimo già.
Più significativo mi pare quello che è accaduto dopo. Fino al 24 febbraio, infatti, almeno per chi esperto non era e non aveva mai pensato di doverlo diventare, era più che lecito non conoscere la genesi e tutti i dettagli degli accordi di Minsk o del conflitto nel Donbas, avere un’idea vaga dello stesso regime di Putin e magari anche prenderne per buoni alcuni argomenti: dalla lotta al terrorismo islamico, con cui si erano coperte fino a quel momento molte delle peggiori atrocità commesse in patria e all’estero, fino alla necessità di ricostruire un Paese uscito a pezzi dalla crisi dell’Unione sovietica.
Certo, c’era già stata l’occupazione della Crimea nel 2014. Ma fino a quel momento poteva apparire ragionevole anche una certa diffidenza nei confronti del ruolo giocato dagli Stati Uniti e dall’occidente in generale nei rapporti con la Russia, considerando la piega che avevano preso gli eventi ai tempi di Boris Eltsin, rispetto ai quali la leadership di Putin poteva anche apparire come un passo avanti, come il tentativo di ristabilire un principio di ordine, dinanzi allo spettacolo di un Paese in cui i cittadini comuni erano ridotti alla fame e piccoli gruppi di affaristi spuntati dal nulla si trasformavano in multimiliardari spartendosi le ricchezze nazionali.
Non faccio l’elenco completo di tutti gli argomenti della propaganda putiniana perché ormai li sappiamo tutti a memoria. Il punto è che, per le ragioni qui sommariamente ricordate, fino al 24 febbraio la situazione poteva anche presentarsi, perlomeno agli occhi di un osservatore distratto, come un dilemma. Ma non dopo.
Dal 24 febbraio in poi, anche il meno esperto e il più disattento degli osservatori ha avuto la controprova, ha avuto tutte le controprove che potesse desiderare: su chi diceva la verità e chi diceva il falso, su chi era l’aggressore e chi l’aggredito, su chi torturava, stuprava e faceva strage di civili innocenti e chi tentava solo di difendersi. E su chi, puntualmente, tentava di negare o mettere in dubbio ciascuna di quelle tragedie, che sarebbero poi state ampiamente documentate da centinaia di riprese via telefonino e via satellite, da intercettazioni telefoniche e da documenti di ogni genere, nonché dalle dirette testimonianze di giornalisti indipendenti provenienti da ogni parte del mondo.
A chiamare in causa la coscienza di ciascuno di noi non è solo la classica domanda: come abbiamo fatto a non accorgerci prima di quanto stava per accadere? Il peggio è che, dopo aver visto e avere saputo e avere avuto la prova e la dimostrazione di tutto, abbiamo continuato a fingere di non vedere e di non capire.
Abbiamo continuato a intervistare gli stessi esperti del giorno prima, senza mai chiedere conto dei fatti del giorno dopo, delle loro previsioni completamente sballate e delle loro analisi distorte, lasciando anzi che continuassero implacabilmente a sbagliarle tutte, e sempre ovviamente nella stessa direzione: così la Russia che fino al 24 febbraio mai e poi mai avrebbe invaso l’Ucraina dal 25 avrebbe vinto in due settimane al massimo, e così via. E più analisi, previsioni e commenti apparivano clamorosamente smentiti dalla realtà, più insistevamo, e ancora insistiamo, a non prenderne atto e a non chiederne conto a nessuno.
Piuttosto continuiamo a presentare la questione avvolta in una nebbia di considerazioni politiche e geopolitiche che sono un misto di vere e proprie falsità costruite dalla propaganda russa e affermazioni di banale buon senso che potevano reggere prima del 24 febbraio. Ma dal 24 febbraio 2022 è passato un anno. Un anno in cui abbiamo potuto osservare in diretta, minuto per minuto, l’invasione e il tentativo di soggiogare un intero Paese. Un anno in cui a Bucha e in gran parte delle città liberate dalla controffensiva ucraina abbiamo visto le fosse comuni, le camere di tortura e tutte le atrocità commesse contro la popolazione civile. Di cosa ancora dobbiamo discutere?
La nostra colpa più grave sta in quello che non abbiamo voluto imparare. Sta in quello che ci ostiniamo a non volere imparare. Se ci mettessimo a rileggere e riascoltare una a una analisi e previsioni di quest’anno, ci sarebbe ampia materia per un severo esame di coscienza.