A sorpresa, alle elezioni regionali di domenica e lunedì, Partito democratico e Lega, i due partiti più “antichi” del sistema politico italiano, hanno sostanzialmente retto: il Partito democratico non ha tracollato verso le percentuali assegnatigli dai sondaggi e la Lega non è stata travolta da Fratelli d’Italia. Peraltro il Partito democratico è senza una leadership da quattro mesi e la Lega con un capo abbastanza sottotono.
Al contrario, due partiti a forte leadership – uno addirittura personale – sono andati abbastanza male: il Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte e il Terzo Polo di Carlo Calenda. Per Fratelli d’Italia è tutt’altra storia, perché si giova contemporaneamente di una forte leadership, quella di Giorgia Meloni, e di una residua caratteristica di partito organizzato.
Se questo è il quadro – ripetiamo: in parte inatteso – c’è da chiedersi se tutto ciò sia casuale e soprattutto conseguenza del gigantesco astensionismo che potrebbe falsare ogni valutazione su questo voto, oppure se non valga la pena si riprendere in mano, per la milionesima volta, la questione del partito. In qualche modo, della insostituibilità dei partiti.
Torniamo sul caso del Partito democratico. Un partito, come detto, anche formalmente senza una guida e un gruppo dirigente, privo di una strategia politica ma con ancora un grumo di organizzazione territoriale, un pulviscolo di dirigenti locali, e soprattutto ancora con un po’ di “senso”, seppure molto sfocato e contraddittorio.
Sono bastate queste ultime tre cose per garantire un risultato vicino al venti per cento. Il che non vuol dire affatto che esista uno zoccolo duro di queste proporzioni e che dunque il Nazareno possa tirare avanti così per molto: ogni giorno che questo partito trascorre in questa sua situazione di moribondage è una tragedia. Ma vuol dire che un partito, per quanto in piena crisi, ancora riesce a reggere proprio perché è (ancora) un partito, una “cosa” che si può incontrare – sempre meno, certo, ma che in qualche modo esiste.
Il Terzo Polo è andato male per la ragione contraria, perché appunto non si è presentato come un partito: non ha nemmeno un nome. L’intervista di Luigi Marattin a Linkiesta da questo punto di vista è perfetta: per prima cosa bisogna darsi l’obiettivo di fare un vero partito, senza ulteriori cincischiamenti e diversivi come la federazione.
Anche per quanto riguarda la Lega, sebbene in modo diverso, è evidente che il suo storico insediamento territoriale abbia impedito la cannibalizzazione da parte di chi è in questo momento più in forma di tutti, cioè il partito della premier, e ciò malgrado l’evidente imballamento politico del suo leader Matteo Salvini.
Quanto a Conte, va ribadito che il suo insuccesso non si deve, come ripete lui, allo scarso insediamento territoriale – e allora perché alle Regionali del Lazio nel 2018 prese il ventidue per cento e oggi il nove? – ma a un declino tutto politico che viene da più lontano, sommato al fatto che il Movimento 5 stelle non ha saputo costruire alcunché di stabile, organizzato, appunto un partito, malgrado ci avesse provato varie volte Luigi Di Maio quando ne era il capo.
Da tutto questo sarebbe sbagliato trarre conclusioni granitiche, il test elettorale è troppo parziale per farlo. E tuttavia un’ipotesi di lavoro investe appunto la possibile rinascita di un modello politico basato sui partiti, di massa e/o d’opinione, cioè strutture riconoscibili, democratiche, contendibili, aperte, in grado cioè di riconnettere progressivamente società e politica nell’epoca della frantumazione degli interessi e dei bisogni.
Se questa lettura è corretta, l’impressione è che Stefano Bonaccini, più legato allo schema classico del partito, incarni meglio questa tendenza di Elly Schlein. Vedremo. Non che la funzione del leader possa passare improvvisamente in secondo piano, ma potrebbe darsi che “il partito del leader”, per riprendere la fortunata espressione di Mauro Calise ormai di tanti anni fa, debba in un certo senso essere visto al contrario di come era percepito in passato, quando prima veniva il leader più o meno carismatico e poi il partito che lo supportava: adesso potrebbe darsi il contrario, che si parta cioè dall’organizzazione per esprimere poi il leader.
Sarebbe un inatteso ritorno alla tradizione, se vogliamo, pur dentro un contesto completamente cambiato (basti pensare all’irruzione nella politica della tecnologia e dei social che ormai competono con il territorio), che potrebbe mandare in soffitta i vagheggiamenti del partito leggero, mediatico o movimentista dei primi anni di questo secolo.
Naturalmente per una rinnovata democrazia dei partiti, per quanto non più partiti “novecenteschi”, occorrerebbe una riforma intellettuale e morale dei vari gruppi dirigenti, una nuova disponibilità a mettersi in sintonia con il Paese, pena l’accrescersi dell’astensionismo con la nascita di una democrazia senza elettori, premessa per la fine della politica.