Un partito normale. È quello che con costernazione per lo stato dell’arte domandano ormai da tempo militanti ed elettori del Partito democratico e anche tanta gente che non vota o è persino lontana da quel partito.
Perché il destino del Partito democratico non è affare dei maggiorenti del Nazareno ma un tassello del sistema democratico, la cui salute quindi interessa tutti. Per questo è un cazzotto nell’occhio il ripetersi di scandali e scandaletti, tessere gonfiate, voti fantasma, improvvisi boom di iscrizioni, desolanti fotografie di sezioni un tempo leggendarie e oggi deserte.
Ogni volta che c’è un congresso è così: cordate, scorrettezze, signori delle tessere, candidati che si proclamano in testa contro altri candidati che dicono la stessa cosa, altri ancora che chiedono l’annullamento di qualche congresso.
Per ora nei circoli in testa è Stefano Bonaccini col 48,8 per cento, segue Elly Schlein col trentasette per cento, Gianni Cuperlo all’8,4 per cento e infine Paola De Micheli al 5,8 per cento. Mancano molti voti del Sud che si prevedono favorevoli al governatore dell’Emilia-Romagna.
Domenica si chiude nei circoli, poi il 26 le primarie, e lì può essere un’altra storia. Questi miasmi organizzativi del congresso non rappresentano un accidente fisiologico: è una patologia che nessun gruppo dirigente è riuscito a curare. Ma questa è solo la punta dell’iceberg di un partito che è giunto alla fase di massima decadenza: alla fine di questo Medioevo dem o c’è il Rinascimento o la fine. Non è che si vedano in giro molti Lorenzo de’ Medici e tantomeno Machiavelli o Leonardo.
Dopo la lugubre stagione di Nicola Zingaretti, protesa all’abbraccio con un uomo come Giuseppe Conte che «ha accettato di presiedere due governi di segno opposto senza batter ciglio, annegando la politica in un pantano di potere senza idee» (la definizione è di Biagio De Giovanni), e la successiva gestione puerile, improvvisata e pasticciona di Enrico Letta, quello che si chiede al prossimo segretario del Partito democratico è ricostruire un minimo di normalità.
Forse alcuni piccoli segni di questi giorni fanno intravedere la possibilità di una risalita: qualche lieve incremento nei sondaggi, un’inedita compattezza del gruppo dirigente contro le ultime derive “donzelliane”, qualche iniziativa unitaria con altri partiti (la mozione anti-Donzelli&Delmastro, e ci sarebbe da cogliere la proposta di Carlo Calenda di un lavoro comune sul salario minimo).
Un po’ di politica, insomma, politica normale, i no che vanno detti, i sì che vanno ugualmente detti: un partito che parla chiaramente. Sembra fantascienza per dirigenti che non si capisce più quello che dicono, e quando si capisce bisogna chiedersi cosa c’è dietro e perché hanno detto quella cosa proprio in quel momento, e così via, in un ginepraio di sospetti e psicanalisi come non si conviene a un partito serio ma a una combriccola alla ricerca di un posto di lavoro e del suo mantenimento.
Un partito normale è quello che non si chiude a riccio ma che chiede con umiltà e orgoglio agli specialisti, agli esperti, alle competenze idee e ricette, senza inseguire l’ultimo arrivato in tv ma puntando a coinvolgere mondi e persone qualificati.
Un partito normale fa crescere i dirigenti, specie i più giovani, non in base all’obbedienza al capo e al capetto di riferimento ma valutando la sua cultura e capacità di proporre idee e ovviamente di saper lavorare per inverarle.
Un partito normale sa di cosa parla, soprattutto sulle questioni più complesse, entrando nel merito ed evitando conformismi e trova il modo di comunicare le sue idee attraverso suoi propri canali, sa suscitare discussione, sa essere interlocutore e protagonista del dibattito pubblico.
Un partito normale ha una linea politica che non è un dogma ma è una bussola per navigare nelle acque melmose della politica, e una linea politica significa scegliere con chi aprire un discorso unitario.
Un partito normale è fatto da donne e uomini che tra di loro sono chiari, solidali, onesti e se è il caso anche severi, perché un partito normale lavora con disciplina e onore.
Un partito normale ha delle priorità, avanza cinque proposte forti, non cinquecento deboli come faceva Enrico Letta in campagna elettorale.
Un partito normale non vive di rancori come gli amanti delusi dei romanzi dell’Ottocento, non misura la sua politica in base ai centimetri di distanza da Matteo Renzi e Carlo Calenda, non giudica le persone rispetto alle «compromissioni con il regime precedente» – se uno è stato renziano non va bene, ma che è questo atteggiamento che confina con lo stalinismo in versione Bersani-Scotto?
Un partito normale infine convoca riunioni pubbliche nel Paese, iniziative e manifestazioni e piano piano ritorna presente, popolare, persino utile.
Solo un partito normale potrà riprendersi i voti che un partito anormale, i Cinquestelle, gli hanno tolto e solo un partito normale potrà svolgere un’opposizione seria al “governo giorgiano” e alla sua voglia di strapotere.