Qualche anno fa Giovanni Fiandaca, giurista sommo, scriveva un memorabile e profetico saggio dedicato all’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia. Lo spirito profetico fu notevole perché il processo in questione sembra destinato a finire male (Cassazione permettendo).
Forse anche l’inchiesta di Bergamo si guadagnerà un giorno le meritate attenzioni di un grande giurista, qui assai più modestamente ci si limiterà a qualche “prima nota” basata su una copia dell’avviso di fine indagini reperita facilmente su internet, ancorché nessuno dei diretti interessati ne abbia avuto formale notizia, come da buone abitudini giudiziarie.
Prima di tutto, non se ne sono accorti formidabili commentatori come Lilli Gruber ed Enrico Mentana, questa non è un’indagine agli albori bensì un’inchiesta chiusa in cui i pm hanno ritenuto di raccogliere sufficienti elementi di prova a carico degli indagati, addirittura per sostenerne la richiesta di condanna.
Intendiamoci, soltanto quando, con tutta calma, i diretti interessati riceveranno le formali imputazioni a loro carico – di cui in compenso è informata l’Italia intera – avranno, almeno sulla carta, l’opportunità di essere sentiti finalmente dal procuratore Antonio Chiappani, che ha indagato su di loro per tre anni, senza trovare mai il tempo di sentirli.
Sì, avete capito bene: oggi la procura di Bergamo chiede che vadano sotto processo un ex premier, un ministro e il fior fiore dei virologi italiani senza avvertire la benché minima curiosità di ascoltare le loro ragioni per avere qualche altro spunto.
Gli è bastato il parere del professor Andrea Crisanti, lui solo a quanto pare, nemmeno di un collegio di esperti. Per carità, bravissimo, ma tutti ricordiamo che il simpatico professore non vantava splendidi rapporti col comitato dei suoi colleghi che affrontava l’emergenza.
Ci fidiamo sulla parola ma restiamo nel nostro seminato e leggiamo dunque le contestazioni. Purtroppo con un certo sconcertato stupore.
Come ormai tutti sanno, tranne gli indagati, le accuse sono varie ma quella su cui ruota l’accusa è il reato di epidemia colposa.
Un reato grave, figuratevi che nella sua ipotesi dolosa, di contagio diffuso volontariamente come i vecchi untori manzoniani, era addirittura punito ai tempi del fascismo con la pena di morte.
Oggi assai più modestamente è punito fino a dodici anni, ma il punto cruciale è che è difficile capire come possa provarsi un’accusa del genere.
Minuziosamente i pm di Bergamo contestano una serie di omissioni, ritardi, disposizioni, mancati interventi delle pubbliche autorità con le quali, leggiamo «cagionavano la diffusione del virus, così determinandone la diffusione incontrollata».
Qualcuno potrebbe chiedersi se non si esageri un po’ a contestare due volte, esagerando la stessa cosa, di aver diffuso l’epidemia, in pratica diffondendola, come dire che uno uccide un altro, causandone la morte, basta meno.
Il pleonasmo denota quasi il bisogno di rassicurarsi, e infatti la tendenza ad abbondare continua.
Così gli stessi imputati che rispondono del reato di epidemia colposa aggravata dalle morti di contagiati sono accusati anche di omicidio, il che sembra difficile perché si muore una volta sola e se è già contestata l’aggravante della morte nell’ipotesi di epidemia non si può raddoppiare. Come dicono i giuristi, si versa in un’ipotesi di «concorso apparente di norme» per cui si deve scegliere quale reato perseguire, di norma è quello che incorpora entrambe le ipotesi di reato e dunque l’epidemia colposa, ma l’omicidio colposo è punito con una pena più alta: perché privarsene? Poi metti caso che l’accusa di epidemia non regga, almeno ci resta l’omicidio, meglio essere previdenti. Trattasi di doppia e alternativa contestazione sullo stesso fatto, un espediente che cela l’incertezza sull’esistenza stessa di un reato.
Forse sarebbe meglio limitarsi all’omicidio ma «epidemia colposa» in fin dei conti suona bene, si abbina meglio con un’inchiesta che vuol spiegare agli italiani cosa è successo, come dice il procuratore Chiappani. Qualcuno pensa che sarebbe meglio solo stabilire se ci sono reati. Così, semplicemente, senza necessariamente cercarne uno.
Non finisce qui: si contesta agli imputati di aver diffuso l’epidemia, va da sé diffondendola, ma non distribuendo attivamente il virus come fanno i contagiati e come sembra prevedere la norma letteralmente – che sembra pensare al contagio prodotto volontariamente o colposamente dai malati – bensì omettendo di adottare le dovute cautele da parte dei controllori.
Purtroppo e lo ammette lo stessa procura, la Cassazione, nell’unica sentenza che tratta di epidemia, esclude che si passa configurare un’epidemia per omissione. La pensa diversamente solo un pregevole articolo scritto, guarda caso, da un pm. Appunto.
La storia (ri)scritta dai pm è un vecchio classico, ma quasi mai regge alla prova del tempo: al massimo solletica quanto di peggio gorgoglia nelle viscere del Paese.
Si deve «spiegare cosa è successo» ma poi chi lo spiega a un giudice onesto che fa a pezzi inchieste pretestuose perché mai debba beccarsi gli insulti della folla inferocita che alle spiegazioni aveva creduto? È successo al gip di Pescara per aver condannato solo cinque imputati per una valanga di neve originata da un terremoto.
Il fatto è che i suoi colleghi pm avevano chiesto pene decennali. Ci credevano davvero o era un omaggio alla folla inferocita? Non sarebbe il caso di riflettere meglio prima di scaricare il peso su un giudice?
E chi spiegherà che quegli sventurati a Crotone magari sono affogati non perché lasciati morire cinicamente dalla guardia costiera ma per un errore degli scafisti? Intanto c’è la prosa ubriacante di un gip che ha già individuato un colpevole.
Si dice che la giustizia deve riparare un tessuto lacerato e ristabilire un equilibrio: talvolta è difficile crederci. Talvolta la giustizia è parte del problema grave di un Paese.