C’è qualcosa di incivile nella cultura e nella pratica cosiddette antimafia. Qualcosa di criminale. Qualcosa che sente di mafia. Ed è l’indagare, l’accusare, il giudicare in perimetro di clan e familiar-onomastico: che è il protocollo mafioso.
I provvedimenti della magistratura antimafia – e già in questa qualificazione, “antimafia”, c’è la denuncia del carattere barbarico-sacerdotale di quella presunta giustizia – che indugiano in modo lombrosian-geografico sulle attitudini di connivenza di una intera comunità sociale, e ordinano l’arresto della donna che «avrebbe provveduto alle necessità di vita quotidiana del latitante», cioè alla fornitura di ricotta e prosciutto, e mettono in vincoli l’altro, quello che fa avere al mafioso un farmaco contro il cancro, ripetono il modulo proprio della cosca che combatte quella avversaria infierendo sulla cerchia familiare.
Lo Stato che trionfa sul crimine organizzato con i rastrellamenti giudiziari e promette guarentigia al recluso che si sottomette al suo potere facendo delazione e rinnegando il proprio sangue, e altrimenti lo mura vivo, riproduce il costume della tribù che assolda il pregresso nemico sotto minaccia di estinguerne la discendenza.
La legalità antimafia che tiene in sospetto la figlia e la moglie del mafioso, ma anche il pizzaiolo del mafioso, il commercialista del mafioso, il farmacista del mafioso, l’elettrauto del mafioso, perché oggettivamente si prestano a garantirne l’impunità, codifica con il sigillo del potere pubblico anziché con quello dei compartimenti di affiliazione un’identica disciplina retrograda: quella per cui la colpa è consanguinea, ambientale ed ereditaria, una colpa da cui ci si assolve appunto rinnegando il seme da cui si è generati e l’ambiente in cui si è cresciuti, e inchinandosi al potere soverchiante.
Ma nulla distingue l’atteggiamento dello Stato che si comporta in questo modo da quello della schiatta che pretende, nell’illegalità, di giustapporvisi: nulla se non la mostrina del potere pubblico, che però è la patacca di legalità appiccicata su un’altra specie di arbitrio, su un’altra specie di violenza, su un’altra specie di ingiustizia.
Può anche darsi che sia perfettamente il linea con il diritto positivo, cioè con la legge che c’è, procedere contro qualcuno che ha alimentato un criminale o ne ha alleviato le sofferenze propinandogli un farmaco. Ma bisognerebbe capire per quali fondate esigenze cautelari quel favoreggiatore dei cicli vitali del mafioso debba andare in prigione prima del processo, e resterebbe in ogni caso il dubbio sul fatto che una giustizia così si ispiri a principi davvero diversi rispetto a quelli che fanno piazza pulita intorno al potere declinante del perdente. Proprio come la mafia.