«Tu-tu-tu-tu-tu-tubiamo!» faceva il jingle di una vecchia pubblicità di cioccolatini confezionati dentro un tubetto: erano i rampanti anni Ottanta. Oggi potremmo riproporlo così: «Cu-cu-cu-cu-cu…» – niente paura, eh… – «Cu-cu-cu-cu-cu-cubiamo!».
Cubare è il verbo del momento. Uno dei verbi da un giorno all’altro assurti a inconsulta popolarità e quindi ripetuti con inesauribile accanimento. Già circolante con limitata udibilità negli ambienti che hanno a che fare con i budget, cubare è stato lanciato in grande stile sulla scena pubblica dalla premier Giorgia Meloni, che lo coniuga ogni volta che può e nella conferenza stampa di presentazione della manovra economica 2023, lo scorso 22 novembre, lo ha sparato a raffica: «È una manovra che cuba complessivamente trentacinque miliardi di euro… i provvedimenti per la famiglia e per la natalità cubano quasi un miliardo e mezzo di euro… la misura sul reddito di cittadinanza cuba settecentotrentaquattro milioni di euro», mentre «cuba circa nove miliardi di euro» la misura relativa ai crediti d’imposta per le imprese. Naturalmente la stampa, che ha antenne ipersensibili per ogni novità lessicale, specie se strampalata, si è generosamente prodigata nella funzione di cassa di risonanza, in una nobile gara a chi pappagalla di più pur di restare agganciato al mainstream.
Che cosa si intenda con questo verbo bislacco è tutto sommato arguibile dal contesto: che la manovra cubi trentacinque miliardi vuol dire che «ammonta, assomma a» trentacinque miliardi. Peccato che i vocabolari della lingua italiana, meno recettivi dei giornali, ignorino al momento questo significato. Ci si arriverà? Speriamo di no, dipende dalla durata e dall’intensità della sindrome cubista.
Alla voce cubare troviamo innanzitutto il senso etimologico – dal verbo latino cubo, giaccio, sto disteso; cubiculum è la camera da letto – accolto nell’italiano antico anche nella forma intransitiva: «là dov’Ettore si cuba», ossia giace sotto terra (Dante, Paradiso, VI, 68); «questi [venti] la vista della fida stella / tolgono al buon nocchier […] / Onde convien che doloroso cube», ossia resti sdraiato (Lorenzo de’ Medici, Capitoli, I, 73 ss.); «e qual più fiera [è] adormentata e cube», ossia giace nel sonno (Simone Serdini «il Saviozzo», Le ‘nfastidite labbra, 52-54). Nell’italiano moderno questa accezione è caduta in disuso – conservandosi però nella numerosa famiglia di derivati: incubo e succubo (su cui si veda «Linguaccia mia» dello scorso 19 aprile), incubare, concubino ecc. – ma si è insospettabilmente mantenuta, attraverso un processo di restrizione semantica e con la spirantizzazione della consonante b in v, nel verbo covare (ossia, in senso stretto, giacere, stare coricato sulle uova) e nei vocaboli connessi (cova, covo, covata, covatura).
La seconda accezione del nostro cubare, invece, ci riporta direttamente all’esaedro regolare chiamato cubo, dal latino cubus, che si riallaccia al greco kýbos. La radice è la medesima del verbo che significa giacere, kub/kup/kap col senso di piegare, che, attraverso una serie di smottamenti semantici, ha dato origine a una variegata produzione di vocaboli in diverse lingue, dai greci kýpto, mi piego, mi curvo, mi abbasso, e kýpe, caverna (le cui pareti sono curve), al latino cupa, botte, all’arabo kab, cubico (da cui Ka’ba, il nome dell’edificio più sacro dell’islam, all’interno della Sacra Moschea della Mecca, che ha sostanzialmente la forma di un cubo).
Se il passaggio dalla radice comune ai derivati è abbastanza trasparente nel caso dei vocaboli che rimandano a un’idea di curvatura, un po’ più tortuoso risulta l’approdo al significato di oggetto cubico. Pierre Chantraine (Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Klincksieck, 1968) ha chiamato in causa a questo proposito il sanscrito kubja, che designa qualche cosa di gobbo, curvo, ma al tempo stesso anche incerto: potremmo quindi ipotizzare che sia proprio questo senso di incertezza a tradursi in kýbos, la parola greca che sta per dado, probabile adattamento da una lingua straniera, come sembrerebbe confermato da Erodoto (I, 94) che ne attribuisce l’invenzione ai Lidi.
In quanto riconducibile all’oggetto «cubo» e non all’azione di «giacere», la seconda accezione di cubare ha un significato che si è definito nel tempo, fin dal Settecento, come «elevare alla terza potenza», «calcolare la cubatura, il volume». Sono i significati ancora oggi registrati dai vocabolari della lingua italiana, in attesa di vedere se sarà il caso di accogliere anche quello meloniano di ammontare: che con una certa dose di buona volontà sarebbe forse giustificabile, perché dicendo che la manovra «cuba trentacinque miliardi di euro» si potrebbe intendere che «ha un volume di». Ma allora perché non usare più semplicemente, più chiaramente, (appunto) il verbo «ammontare»? Tanto più che da questa per ora ufficiosa accezione si stanno già allontanando certi cubisti d’oggidì, partiti per la tangente, come il politico che in un’intervista parla di «cubare il fatturato desiderato» (ossia raggiungerlo?), o come l’ufficio regionale che nell’oggetto di una comunicazione fa riferimento a una enigmatica vendita di legna da ardere «mista con assortimento quercino al cinquanta per cento non in catasta all’imposto da cubare sul mezzo di trasporto», autentico rompicapo di fronte al quale anche Alan Turing getterebbe la spugna.
«Cu-cu-cu-cu-cu-cubiamo!». Come andrà a finire ce lo aveva spiegato quella vecchia pubblicità, nel claim finale: «Impara il linguaggio dei tubi: così gli altri non ci capiranno un tubo».