Tirato in 400 copie e autoprodotto negli scorsi mesi dalla fotografa Luana Rigolli, L’isola degli arrusi (in siciliano occidentale arrusu è il corrispettivo italiano di frocio) è un libro che muove e commuove. È un memoriale potente, che rende a noi presente la passione di quarantacinque catanesi confinati dal fascismo per pederastia e solleva prepotentemente il velo su una pagina scarsamente conosciuta della nostra storia. Un invito quasi ineludibile a seria riflessione che, ancor più significativo alla vigilia del 25 aprile, si è tradotto venerdì nello specifico incontro romano su moderazione di Alessio Ponzio, componente dello staff dell’LGBT+ History Month Italia e professore straordinario presso l’Università di Torino, dove, a partire dal corrente anno accademico, è titolare del corso di Storia dell’omosessualità.
A ospitare l’evento il Circolo di cultura omosessuale “Mario Mieli” con introduzione del presidente Mario Colamarino e interventi della stessa Rigolli, del regista Alessandro Tampieri, della coppia di papà arcobaleno Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio, l’uno scrittore e attivista Lgbt+, l’altro poeta e conduttore radiofonico, che sono i coautori del documentato saggio storico-antropologico La città e l’isola. Omosessuali al confino nell’Italia fascista. Pubblicato per la prima volta nel 2006 e recentemente riedito per i tipi Donzelli con prefazione di Vittorio Lingiardi, tale opera è non solo testo di riferimento per chi voglia approfondire la ricerca scientifica o semplicemente informarsi al riguardo. Ma anche fonte d’ispirazione dell’accennata iniziativa fotografico-editoriale, che restituisce per la prima volta i volti di quegli uomini tra i 18 e i 50 anni, confinati nella prima metà del 1939 a San Domino, isola dell’arcipelago pugliese delle Tremiti, per l’ossessivo zelo del questore di Catania Alfonso Molina.
«Nell’interesse del buon costume e della sanità della razza», così aveva questi motivato, tra il gennaio e il febbraio del 1939, le proposte di confino. Pur mancando come per il passato uno specifico reato nel Codice penale, riformato dal guardasigilli Alfredo Rocco ed entrato in vigore nel 1931, i rapporti omosessuali continuavano di fatto a essere considerati criminosi. Anzi, erano trattati come delitti non più solo contro la morale pubblica e il buon costume. Ma ora, in linea col nuovo titolo X del testo normativo, anche contro l’integrità e la sanità della stirpe.
L’assenza di un intervento del legislatore in materia influì in ogni caso sulla portata dell’azione repressiva della pederastia che, alternamente considerata vizio acquisito e malattia congenita, era derubricata dal regime a fenomeno scarsamente diffuso. Laddove s’intervenne, più che al carcere si ricorse pertanto al confino e all’internamento manicomiale: d’altronde le due misure preventive potevano meglio garantire l’occultamento di una realtà altrimenti dannosa all’immagine del virile maschio italiano.
«Il regime – così a Linkiesta Claudio Finelli, segretario e referente Cultura di Arcigay Napoli – si fece promotore dell’assunto, tanto ideologico quanto assurdo, che la progenie romano-italica fosse sostanzialmente immune da “simili perversioni” e che, tranne rarissime eccezioni, la virile tempra nostrana non conoscesse questi cedimenti e queste “mollezze” proprie dei popoli d’oltralpe. Questo stato di cose ha inevitabilmente indotto gli omosessuali del tempo a vivere nella massima clandestinità la propria esistenza, per evitare d’incorrere in quei provvedimenti amministrativi che ne avrebbero comunque sancito il confino». Misura, questa, che oggi conosciamo meglio e possiamo valutare con più appropriato criteri grazie allo studio magistrale di Lorenzo Benadusi Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista.
Tornando al questore Molina, delle complessive cinquantatré proposte di confino, da lui presentate e tutte relative, secondo una diffusa concezione valutativa dell’omosessualità d’origine greco-romana, a «pederasti passivi», ne erano state alla fine accolte quarantacinque. Quelle appunto dei protagonisti del libro. Originari per lo più del capoluogo etneo e, in misura minore, di Adrano, Risposto, Paternò, essi sarebbero rimasti a San Domino fino al 7 giugno 1940. Dovendosi infatti adibire l’isola a luogo di relegazione per oppositori del fascismo, essi si videro commutare il confino, su proposta del capo della polizia e approvazione del Duce, in due anni d’ammonizione.
Gianfranco Goretti ricorda al nostro giornale di aver faticato, insieme col proprio compagno, nel «riportare alla luce questa storia, di cui s’era persa traccia nel corso degli anni. La nostra è stata una ricerca d’archivio molto approfondita. Quando vent’anni fa è stato pubblicato L’omosessuale e l’isola, abbiamo preferito non rivelare l’identità delle persone coinvolte per rispetto sia della privacy sia dei parenti sia del desiderio di non visibilità, che i diretti interessati avevano sempre manifestato nel corso della loro esistenza. Il lavoro di Luana restituisce oggi dei volti ed è dunque d’indubbio interesse: l’impatto è infatti molto potente, molto forte».
È dal corposo saggio di Goretti e Giartosio che, come si diceva, nasce il progetto fotografico e, quindi, il libro di Rigolli. «Sono – racconta l’autrice a Linkiesta – una fotografa molto appassionata di storia, soprattutto del ’900, e di isole. Nel febbraio 2019, entrando in una libreria, mi sono imbattuta per caso in una copia de L’omosessuale e l’isola. Non conoscevo questa drammatica vicenda collettiva. Ma, immergendomi nella lettura del libro, ho subito pensato a una storia fotografica. Nell’autunno di quell’anno ho iniziato i miei viaggi con destinazione San Domino e, quindi, Catania. Nella città siciliana ho fotografato di notte i luoghi che i maschi omosessuali frequentavano, volendo così esprimere la situazione di clandestinità nella quale erano costretti a vivere. A San Domino, invece, gli scatti dei luoghi di confino sono stati tutti realizzati di giorno: era in quelle ore, infatti, che essi vivevano l’isola, in quanto la notte dovevano tassativamente restare nei cameroni».
In entrambe le località Luana Rigolli ha cercato di conoscere persone che avessero avuto in qualche modo a che fare coi 45 confinati. A San Domino, ad esempio, ha avuto la possibilità di colloquiare col novantaseienne Attilio Carducci, che all’epoca aveva 12 anni: nell’azienda agricola paterna lavorarono infatti alcuni di quegli uomini. La parte più laboriosa è stata quella relativa alla ricerca presso l’Archivio di Stato centrale. «Ma – confessa al nostro giornale – sono stati anche i momenti più avvincenti, perché è come se lì li avessi direttamente conosciuti». Oggi attraverso gli scatti raccolti in questo libro possiamo anche noi fare la stessa esperienza di Luana, che dei confinati omosessuali catanesi ha fotografato le schede biografiche, i documenti riguardati l’arresto, le umilianti visite mediche, le richieste di grazia al Duce. È d’altra parte questa la finalità, che lei stessa si prefigge con L’isola degli arrusi. «Come la storia degli omosessuali catanesi a San Domino – spiega – ha colpito me che sono etero, così può colpire tante persone esterne al mondo Lgbt+. E la fotografia è, indubbiamente, mezzo immediato e quanto mai efficace, per arrivare a più persone possibili. È necessario ricordare quanto è accaduto solo meno di 90 anni fa, per non ricadere più negli stessi errori».
Un’osservazione è forse da farsi e riguarda, per quanto affascinante, proprio il titolo del libro. In palermitano e, più in generale, nel dialetto siciliano occidentale arrusu è con le sue varianti garrusu/jarrusu antico termine, per indicare spregiativamente i maschi omosessuali e, più specificamente, quelli passivi. Che, invece, erano e sono in prevalenza chiamati puppi in area innanzitutto catanese, ai cui usi linguistici resta tradizionalmente estraneo il lemma arrusu. Questo vocabolo, come spiega a Linkiesta il professore Giovanni Ruffino, accademico della Crusca e massima autorità in campo di dialettologia siciliana, «è un arabismo: tale è l’origine più largamente condivisa. La forma araba originaria è ’arus, il cui significato è “sposo, sposa, fidanzata”, con evidente variazione semantica». Ma questa è tutta un’altra storia.