Il garantismo è la diretta conseguenza del liberalismo: una verità ovvia fino alla banalità e che fa capire come nelle società autoritarie o nelle democrazie in crisi involutiva una compiuta libertà non sia possibile o versi in un grave Stato di pericolo.
Il vero garantista è colui che pensa al sistema dei diritti processuali, prima ancora che come un’istituzione dogmatica, come visione politica radicata nella Costituzione e presidio della libertà di ogni singolo cittadino.
Un garantista sa che a lui interessa – come al medico – la patologia di un processo o di un’indagine, perché la lesione del diritto del peggiore dei mascalzoni diventerà un precedente con cui un pessimo magistrato prima o poi farà un grave torto a un bravo cittadino sotto processo.
Un garantista non si farà mai guidare dal tifo, dalla fede politica, dalla religione e financo dai pregiudizi: il diritto è la religione laica di una società libera.
I sintomi della malattia di una democrazia si manifestano con la “giustizia di scopo”, quella particolare patologia che utilizza il processo come leva per la realizzazione di un fine “ nobile”.
Può essere ad esempio la difesa della «società degli onesti», dei bambini, delle donne, del diritto al silenzio contro i rave o dei confini della patria o – come discusso qui di recente – addirittura della purezza “de coubertiniana” e ipocrita di uno sport popolare come il calcio.
Un buon pretesto c’è sempre per una legge liberticida o un processo ingiusto: ad esempio processare un ex presidente, disonesto, golpista e traditore come Donald Trump di cui vedo l’arresto scrivendo queste righe, mentre entra nella Manhattan Criminal Court inseguito dalle domande di una giornalista che gli grida appresso: «Lei è ancora libero Mr. Trump?»
L’incriminazione dell’inguardabile The Donald è però anche un grave segnale di debolezza per una ex esemplare democrazia capace in passato di perdonare “Tricky Dick” Nixon e i suoi metodi (recuperate da qualche parte “Gaslight” con i sublimi Sean Penn e Julia Roberts che interpretano i coniugi Martha e John Dean, protagonisti potenti nella Washington anni Settanta e vi farete un’idea).
Ieri l’ex presidente ha potuto conoscere finalmente e per la prima volta (in Italia le avrebbe già apprese su Il Fatto) le accuse mosse contro di lui.
Se la cornice in cui si è svolta la cerimonia della consegna all’autorità giudiziaria farà impazzire i giustizialisti di mezzo mondo, convinti di assistere al trionfo della Rule of Law – per cui nessun uomo, anche il più ricco o potente, è al di sopra della legge – la sostanza è assai povera e denuncia in realtà la crisi di una democrazia incapace di sconfiggere i propri demoni politicamente e razionalmente.
Come noto, la sostanza dell’accusa è il pagamento di una somma di denaro ad una porno star per tacere su alcuni incontri intimi che la donna cercava di propagandare durante la campagna elettorale del 2016.
Il fatto non costituisce di per sé un illecito, anzi Trump avrebbe qualche ragione a definirsi vittima di un’estorsione visto il contesto in cui venivano a cadere le dichiarazioni di Stormy Daniels: la sua candidatura presidenziale. I soldi furono pagati da un ex legale di Trump, poi rimborsato dall’organizzazione del magnate.
Sarebbe dunque stato commesso un reato di false fatturazioni fiscali intestate alla Trump revokable trust, fatture pagate anche con assegni personali dell’allora presidente definite fraudolentemente come servizi legali di Michael Cohen. In Italia il reato di frode fiscale è punibile solo se le false fatture sono inserite nelle dichiarazioni annuali della società che le paga al fine di versare meno tasse, ed è punito con una pena da quattro a otto anni se l’ammontare dell’evasione supera i centomila euro.
Nel caso di Trump i vari pagamenti (non solo a Stormy Daniels ma anche a un’altra amante e a un portiere di uno stabile al corrente di una presunta paternità di Trump) sarebbero avvenute per evitargli un danno nella corsa alla presidenza ancorché diversi pagamenti risultino effettuati dopo l’elezione e non per ottenere vantaggi fiscali.
I reati fiscali avrebbero lo scopo di favorire e nascondere la consumazione di altri reati che Alvin Bragg – procuratore distrettuale della contea di New York – nella sua conferenza stampa ha rivelato essere di violazione della legge elettorale.
Il punto è proprio questo: Bragg non ha contestato alcuna altra specifica incriminazione, presumibilmente perché ciò comporterebbe che egli debba passare la mano a una procura federale, spogliandosi del caso.
Non solo, dopo aver fatto cenno agli altri pagamenti per comprare il silenzio a una ex playmate e a un custode condominiale – regolarmente sputtanati come da tradizioni di casa nostra – nessuna specifica accusa su questi fatti salta fuori dalle oltre sessanta pagine e trentaquattro capi d’accusa. Il tutto dunque per gonfiare il soufflé, e trattenere presso il proprio ufficio un caso su cui non avrebbe competenza. Forse non ha torto l’imputato a lamentare un «secondo fine» del processo.
Negli Stati Uniti la falsa fatturazione è un reato minore e viene punito come sottolineano i numerosi esperti che commentano la clamorosa procedura con una pena massima minore (fino a quattro anni) che potrebbe essere estinta con la sottoposizione volontaria di Trump a un periodo di lavori socialmente utili, come il suo amico Silvio Berlusconi che andò a cooperare in una residenza per anziani. Siamo sicuri che certamente sarebbe un’occasione rara per Trump per rendersi utile alla società, ma ciò non toglie che la situazione crei qualche disagio.
E infatti Trump ha cavalcato la vicenda decidendo di presentarsi, cosa che difficilmente sarebbe accaduta di fronte ad accuse ben più gravi come quelle oggetto di altre indagini sulle sue condotte dopo la sconfitta contro Joe Biden.
In un sistema giudiziario di common law come quello americano, basato sul prevalente indirizzo della giurisprudenza, l’unico precedente è quello di un ex senatore che aveva pagato una donna che aveva avuto un figlio da lui ed era stato assolto da analoghe accuse sostenendo che avesse voluto evitare non uno scandalo politico ma un dolore alla moglie malata di cancro.
Stiamo parlando di questo: e anche di un rinvio a giudizio determinato da una giuria popolare e richiesto da un procuratore democratico di nomina politica.
Sono caratteristiche del sistema giudiziario statunitense che hanno funzionato egregiamente in epoche di grande stabilità democratica del corpo elettorale, ma che oggi rischiano di mostrare la corda di fronte all’ondata populista scatenata da Trump.
Si può dire sin d’ora che l’illusione dello «stato di eccezione» e della «giustizia di scopo» per giustificare l’uso distorto del processo penale non sono mai servite a fermare i demoni interni di una società, anzi sono stati un pretesto per farli dilagare.
E con questo torniamo all’introduzione di questo pezzo: lungi dall’essere un’utopia da anime belle, il garantismo è una formidabile profilassi di igiene democratica. Da coltivare sempre.