La giornata del 4 aprile è stata pessima sia per l’uomo Donald sia per il leader Trump. Più o meno nelle stesse ore in cui il signor Donald entrava nel tribunale penale di New York, in stato di arresto, per farsi leggere i trentaquattro capi di accusa per i quali sarà processato, il leader Trump incassava una sonora sconfitta. L’ennesima da quando guida il partito repubblicano, la prima del suo nuovo corso di leader e imputato.
È successo in Wisconsin, nell’ambito di un’elezione locale per eleggere un giudice alla Corte Suprema dello Stato.
L’elezione, che in condizioni normali sarebbe dovuta passare sotto silenzio, in realtà è già passata alla storia per essere stata la più costosa del suo genere (in tutto le campagne elettorali dei suoi contendenti sono costate più di trenta milioni di dollari: un record per una campagna che difficilmente supera i dieci milioni).
La ragione di tanta attenzione e tanto clamore – e tanti soldi – per un’elezione locale è più o meno la stessa che, dal 2020, ha reso cruciale ogni voto, ogni seggio, ogni elezione di consiglio scolastico.
Tutte elezioni che, fino a non molto tempo fa, non si filava quasi nessuno ma che ora hanno l’aspetto e l’appeal di tante mini presidenziali.
Questo perché vengono usate per prendere la temperatura di un Paese intero, per scrutare l’esito del giochino delle presidenziali che andrà in scena nel 2024, per capire da che parte tira il vento. E tutte elezioni che in una realtà giuridicamente parcellizzata come è quella degli Stati Uniti – in cui non solo ogni Stato ha leggi sue, ma in cui anche ogni contea può fare storia a sé – vengono usate per occupare posti di controllo in grado di influire non solo (e già sarebbe tanto) sullo svolgimento ma persino sull’esito del voto. Il voto di martedì in Wisconsin era uno di questi voti.
Chi avesse vinto tra i due giudici Janet Protasiewicz, sostenuta dai democratici, e Daniel Kelly, sostenuto dai conservatori, avrebbe cambiato gli equilibri della Corte Suprema dello Stato, attualmente in perfetto pareggio 3-3 tra democratici e repubblicani. E soprattutto chi avesse vinto avrebbe assicurato ai suoi il controllo dell’organismo giuridico chiamato a dire l’ultima parola in caso di controversia sull’esito delle elezioni.
È successo, per esempio, proprio in Wisconsin, nel 2020, quando Trump fece ricorso per chiedere l’espunzione dal conteggio dei voti delle schede arrivate da alcune contee di tendenza democratica. In quel caso la corte, che pure era a maggioranza repubblicana, respinse (per un voto) la richiesta dell’intemperante presidente.
Nelle elezioni di martedì, lo diciamo per la cronaca, ha vinto la democratica Protasiewicz. E mezzo Paese ha tirato un sospiro di sollievo. Non tanto perché sia meglio un giudice democratico di uno repubblicano (cosa che, statisticamente, non è vera), quanto perché un repubblicano di oggi, per forza di cose, è trumpiano e in quanto tale è probabile che avalli una visione del mondo spregiudicata che ha in spregio la giustizia, la democrazia, persino la verità stessa delle cose.
Affidare la Corte Suprema di uno Stato come il Wisconsin (che non è esattamente swing, ma che non è più prevedibile come un tempo) a una maggioranza trumpiana era un rischio che in pochi (anche tra gli elettori dello Stato) si sentivano di correre. Questo, unito alla complicatissima faccenda aborto (che dallo scorso giugno è illegale in Wisconsin) ha tirato la volata alla candidata democratica che ha vinto con uno schiacciante cinquantacinque a quarantaquattro per cento
Così la terza vita politica di Trump, non più candidato-outsider, non più candidato-incumbent, ma candidato-imputato, è iniziata con una sconfitta. Una sconfitta che rassicura i democratici e che conferma ai repubblicani, una volta di più, quello che sanno da anni: con Trump le elezioni non si vincono. Al massimo si scassa il sistema.