La morte terribile di Giovanni Falcone e l’altezza leggendaria della vicenda di quel magistrato impediscono ancora dopo trent’anni di discutere serenamente della sua partecipazione a una cultura e pratica della giurisdizione che ha arrecato grave danno a questo Paese.
Un processo con settecento indagati, il “maxiprocesso” giustamente associato all’opera del magistrato ucciso, sospinto da ottomila pagine di istanze dell’accusa pubblica, celebrato in un bunker, descriveva autonomamente, e cioè anche a prescindere dalla fondatezza delle imputazioni, la perversione di un sistema giurisdizionale trasfigurato in missione sociale, l’aberrazione dell’azione penale che esporta l’ordine costituzionale e la legalità andando a strascico nel territorio-canaglia.
Il vizio stava già lì, tutto intero e pronto per contaminare non solo la giurisdizione ma anche la normativa dei decenni successivi: con la mafia fatta entrare nelle leggi e nei processi, e cioè fatta esistere, nel convincimento forsennato di combattere il negazionismo che voleva inesistente la mafia nella storia e nella società. Una parte rilevantissima dell’ingiustizia italiana si è prodotta esattamente in forza della caratura antimafia delle nostre leggi e dei poteri affidati a chi doveva applicarla; e i processi-bufala come quello sulla trattativa Stato-Mafia o come quello su Mafia-Capitale non erano gli incidenti di erroneità in un sistema altrimenti impeccabile, ma i frutti naturali di quell’innesto perverso, lo stesso che obbliga la giustizia a scrutinare la coloritura mafiosa di una testata data a un giornalista e a investigare secondo protocollo esorcistico i sentimenti della figlia verso il padre mafioso.
Rende anche più difficile continuare questo discorso il fatto che quella eminente vittima dell’atrocità mafiosa sia retoricamente celebrata da ampie fasce del potere politico e giudiziario che dimostrarono inimicizia al famoso magistrato: ed è vergognoso che, tra i più fieri officianti del ricordo, tanti siano quelli che mafiosamente lavoravano per screditare il lavoro e l’immagine di Giovanni Falcone. Ma resta che pur in perfetta buona fede, e pur dedicandovisi al costo della vita, quel coraggioso funzionario, come molti altri, ebbe del proprio ruolo un’idea molto discutibile: e della giustizia in generale un concetto missionario in nome del quale magari si è fatto male alla mafia, ma sicuramente non si è fatto bene a quel che si dice lo Stato di diritto.