Negli anni trenta dell’Ottocento si trovavano a Napoli per brevi periodi due grandi personalità che avrebbero segnato la storia nei rispettivi campi. Il primo è Samuel Morse, che all’epoca faceva il pittore, prima di iniziare la fruttuosa carriera con gli esperimenti sull’elettromagnetismo e la trasmissione su filo che lo resero famoso. Tra il 1830 e il 1831 passò in Italia e lasciò una vivida impressione sulla città partenopea e le sue usanze, inclusa la pizza, che descrisse come «una specie di torta nauseabonda […] ricoperta di fette di pomodoro e cosparsa di pesciolini, pepe nero e chissà quali altri ingredienti». E concludeva affermando che, secondo lui, assomigliava «a un pezzo di pane tirato fuori da una fogna».1 La non lusinghiera impressione sarà confermata da altri autori che vedremo in seguito, anche se questa prima descrizione è forse una delle più critiche verso la specialità napoletana.
Il secondo resoconto che incontriamo tra le nostre fonti proviene invece dalla penna del grande romanziere Alexandre Dumas, celebre autore de I tre moschettieri e Il conte di Montecristo. Durante il suo viaggio nel Sud Italia del 1835, il romanziere ebbe l’occasione di annotare una grande quantità di fatti e curiosità che verranno pubblicati qualche anno dopo in francese nell’opera in quattro volumi dal titolo Impression de voyage – Le corricolo.
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La pizza è una specie di talmouse come si fa a Saint‑Denis; è di forma rotonda e impastata con la stessa pasta del pane. È in diverse larghezze, a seconda del prezzo. Una pizza da due liard basta per un uomo; una pizza da due soldi dovrebbe soddisfare un’intera famiglia. A prima vista la pizza sembra un piatto semplice; dopo l’esame, è un piatto misto. La pizza è all’olio, la pizza è al lardo, la pizza è allo strutto, la pizza è al formaggio, la pizza è ai pomodori, la pizza è ai pesciolini; è il termometro gastronomico del mercato: sale o scende di prezzo, a seconda del prezzo dei suddetti ingredienti, a seconda dell’abbondanza o della scarsità dell’anno. Quando la pizza ai pesciolini è a mezzo grano, il pescato è stato buono; quando la pizza all’olio è a un grano, il raccolto è stato pessimo. Poi una cosa ancora influenza il corso della pizza, è la sua freschezza; capiamo che non si può vendere la pizza del giorno prima allo stesso prezzo di quella del giorno stesso; per tutte le tasche ci sono pizze di una settimana che possono, se non piacevolmente, almeno vantaggiosamente, sostituire il biscotto di mare.
Le pizze descritte in questo brano dovevano essere più spesse di quelle attuali, altrimenti sarebbe incomprensibile il riferimento a quelle di taglia più grande capaci di sfamare un’intera famiglia; in secondo luogo, nella maggior parte dei casi, si trattava di semplici focacce di acqua e farina condite superficialmente con grasso, tanto che venivano trasportate facilmente all’interno di cesti e vendute in strada. Se poi aggiungiamo anche che il pizzaiolo percorreva le strade d’inverno al freddo, ci si può fare un’idea del prodotto che metteva a Fatti e misfatti della pizza napoletana a disposizione dei passanti.
Inoltre non c’è nulla di strano che una forma di pane larga e piatta possa essere venduta anche da secca, anzi il fatto che perda tutta l’umidità senza ammuffire è da sempre uno dei vantaggi riconosciuti a questo tipo di schiacciate. Ovviamente non saranno state fragranti come appena sfornate, ma erano pur sempre una forma di pane condito e il loro basso costo avrà certamente incontrato un tipo di clientela disponibile a comprarle. In sostanza le pizze descritte da Dumas erano insaporite con grasso o pochi altri ingredienti, fredde e, nel peggiore dei casi, secche. Il vero vantaggio di questo cibo era soltanto uno: costava così poco che se lo poteva permettere praticamente chiunque.
Da “Storia della pizza – Da Napoli a Hollywood” di Luca Cesari, Il Saggiatore, 352 pagine, 19 euro