Un’ondata di panico ogni tanto si abbatte sulle borse: è una frase fatta e un brutto accidente. Ma un’ondata di panico da anni, senza interruzione, ha investito pure le porte. Anche quelle antipanico, anche quelle tagliafuoco. E più sono munite di rinforzi, più sono blindate e corazzate, più sono in apprensione, in allarme, allarmate. Che cosa le mette così in subbuglio?
Forse, proprio quel vistoso cartello, metallico o adesivo, che le decora: dove si legge, appunto, «Attenzione porta allarmata». Deve essere l’obbrobrio linguistico a turbare la loro lignea, o più spesso metallica, impassibilità: perché il verbo transitivo “allarmare” – derivato denominale da allarme, sostantivazione del comando militare “all’arme!” – significa (virgolettiamo dal vocabolario Treccani, anche se per saperlo non c’è bisogno di consultare vocabolari) «mettere in allarme, in viva apprensione», e quindi il participio passato (e aggettivo) “allarmato” (usiamo per bieca consuetudine grammaticale la forma maschile, moderatamente fiduciosi che la gender awareness non abbia ancora sfiorato la coscienza delle porte) significa «vivamente preoccupato e inquieto per la sensazione di un pericolo imminente».
Senonché, «con significato tecnico di recente acquisizione», spiegava già l’edizione 2002 del Sabatini Coletti, “allarmare” può anche voler dire «collegare ambienti e varchi a un impianto di allarme». Questa accezione secondaria, nella forma più sintetica «dotare di sistema di allarme», si ritrova nello Zingarelli 2021, che coerentemente, alla successiva voce “allarmato”, registra anche, in analogia con diversi altri vocabolari, la definizione «detto di impianto o struttura dotati di un sistema di allarme».
Che però la questione non sia pacificamente risolta è svelato – tra l’altro – da una esitazione ravvisabile sul Grande dizionario italiano dell’uso (Gradit) di Tullio De Mauro: abitualmente aperto alle innovazioni linguistiche, l’autore accoglie bensì l’accezione secondaria di “allarmato”, ma non quella di “allarmare”. Analoga oscillazione si può rilevare nel vocabolario Treccani. E la stessa Treccani, in una risposta online nella sua sezione “Lingua italiana”, indulge a giustificare la «apparente transcategorizzazione animistica, in forza della quale un soffio vitale sembra trasformare la porta in una creatura vivente preda di una forte emozione», osservando che «siamo in presenza di normali procedimenti estensivi di incremento dei significati di una parola».
Detto che pure in inglese si ritrovano le locuzioni “alarmed door” e “the door is alarmed” – e magari è proprio dall’inglese che arriva il cattivo esempio (peraltro di dubbia sostenibilità, e di fatto contestato, anche da chi parla questa lingua), resta il problema del procedimento estensivo: fino a che punto si può incrementare l’area semantica di una parola senza stravolgerne il significato, o addirittura cadere nel ridicolo, come nel caso della porta spaventata?
In realtà il ridicolo è in una certa misura inerente a diversi verbi denominali di recente formazione, come per esempio “attenzionare” (di cui questa rubrica si è già occupata [20.3.2023]). Facciamo un giochino: io scrivo una parola e chi legge dice di che cosa si tratta. La parola è “guardianato”. Scommetto (sto volutamente prendendo tempo per dare modo di rifletterci) che tanti, come me quando mi sono imbattuto per la prima volta, in un certo contesto, in questo mostriciattolo lessicale, avranno pensato che si trattasse di un sostantivo, il nome di qualche cosa: in effetti il solito Treccani ne dà la seguente definizione: «1. Grado, ufficio di guardiano, e in particolare di padre guardiano nei conventi; anche, il tempo della sua durata in carica. 2. Funzione, attività di guardiano, come servizio di vigilanza e custodia». Ma non è questo il contesto in cui il mostriciattolo mi si è appalesato; si trattava invece di un participio passato, e precisamente il participio passato di un improbabile (inesistente, vivaddio!) verbo “guardianare”: ossia (stiamo al gioco definitorio) “dotare di guardiano”. Nella scombiccherata prosa in cui la parola(ccia) faceva brutta mostra di sé, a essere “guardianato” era un parcheggio.
Ma lasciamo da parte il ridicolo, che oltre a essere inerente è spesso anche inevitabile (per evitarlo bisognerebbe fare a meno di avventurarsi in certi sgangherati neologismi; e nel caso della porta, anziché “allarmata”, ricorrere a formulazioni un po’ più articolate – nel cartello non manca lo spazio – che virtuosamente qualcuno pure utilizza: «Attenzione porta collegata al sistema di allarme», «Porta munita di segnalazione di allarme». «Porta con dispositivi di allarme in funzione»). Consideriamo invece la grammatica. Nella locuzione “porta allarmata”, la parola “allarmata” è un participio passato con valore passivo (quando non è preceduto da un ausiliare, ossia al di fuori dei tempi composti, il participio passato dei verbi transitivi ha sempre valore passivo, mentre ha valore attivo quello dei verbi intransitivi). Ma la funzione di una porta allarmata, all’occorrenza, è quella di dare l’allarme, di allarmare a sua volta: ossia da allarmata (dotata di allarme), e proprio per il fatto di essere allarmata, diventa allarmante. Realizzando così la coincidenza di participio passato con valore passivo e participio presente con valore attivo.
Un bel guazzabuglio. L’incremento dei significati può produrre il decremento della proprietà lessicale e il cortocircuito della logica, spalancando la porta alla teratologia linguistica. Questo sì è allarmante (senza essere allarmato). Per non sbagliare, un consiglio: non aprite quella porta!