Un ministro del governo repubblicano che a casa propria o nel séparé di una bettola dice la sua su una vicenda giudiziaria in corso, lasciandosi andare all’uso di modi da gang, non fa torto a nessuno se non alla propria decenza. Ma se in pubblico, comiziante in faccia a una platea di fedeli, si riferisce a un indagato chiamandolo «bastardo», allora contravviene in modo gravissimo alla propria funzione e lede in modo irrimediabile il decoro che è doveroso pretendere da qualsiasi esponente istituzionale.
Non si tratta del sussiego parruccone che ripudia la parolaccia e si costringe a toni vellutati: si tratta dell’aspettativa che chi governa il Paese non snoccioli i suoi giudizi sui fatti del giorno tenendo pubblicamente comportamenti ammissibili semmai in una taverna. Ma il ministro Matteo Salvini – di lui si discute – ha fatto anche peggio che dare di bastardo a un indagato (quello che ha ammazzato Giulia Tramontano), auspicando l’intervento di una giustizia che lo faccia «marcire in galera fino alla fine dei suoi giorni»: per soprammercato, infatti, si è pure permesso di sfruculiare i magistrati che se ne occupano, argomentando che non stanno lavorando bene (col processo «siamo partiti male», ha detto) perché non hanno formulato ipotesi di imputazione rispondenti alle istanze punitive Forca&Ordine predilette dal capo leghista.
E promette, Capitan Ruspa (occhio a chiamarlo così in televisione, come mi è capitato di fare l’altra sera: insorgono tutti a proteggerne la rispettabilità, notoriamente certificata dai cori contro i napoletani che puzzano e dalle requisitorie contro le “zingaracce”), promette, dicevo, di non lasciare le cose come stanno, coi bastardi affidati alle capziosità del contraddittorio e all’insopportabile diritto di difesa anziché alle direttive di un ministro che dà la linea al processo: ci pensa lui, ha spiegato, a rimettere a posto un ordinamento intollerabilmente orientato all’accertamento delle responsabilità secondo diritto e non, purtroppo, secondo risoluzione di piazza.
Ma evidentemente queste sconsideratezze devono passare in cavalleria perché dopotutto che sarà mai se un ministro della Repubblica reclama che si faccia giustizia (la sua) su un bastardo? E se poi, mentre le indagini sono in corso, si mette a far comizio contro i giudici che cavillano sulla mancanza di premeditazione, che vuoi che sia? Ma nulla, figurarsi: solo il dettaglio che in uno Stato di diritto non funziona così, e che in uno Stato di diritto non c’è un ministro che si comporta in questo modo. E, se lo fa, è cortesemente chiamato a levarsi di mezzo. E non solo dagli avversari, inibiti a fare certi rilievi perché lo sdegno pubblico per la brutalità del delitto sconsiglia di passare per azzeccagarbugli perdonisti: ma anche dai sodali.
Anzi dovrebbero essere innanzitutto questi, gli alleati e il suo partito, a fargli l’opportuno discorsetto e a pretendere che ne tiri le necessarie conseguenze. Perché lasciar correre queste cose – che possono essere considerate minute solo perché ci si è abituati a lasciarle correre – non vuol dire confinarle nella responsabilità individuale di quell’indecoroso agitatore di rosari: vuol dire esserne macchiati a propria volta.