Nel 1989, il regista Nanni Moretti ha girato Palombella rossa, una straordinaria testimonianza del travaglio interiore di un funzionario del Partito Comunista Italiano di fronte alla crisi ideologica della sinistra italiana negli anni della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il protagonista, Michele Apicella, soffre di improvvise perdite di memoria, che diventano metafora di un’identità perduta di un uomo, come tanti, costretto a ricostruire o a ritrovare i suoi ideali in una realtà ideologica che appare ormai inevitabilmente frammentaria e inaffidabile. Quando una giornalista lo avvicina ai bordi di una piscina dove si svolge una gara di pallanuoto e gli chiede se ha commenti riguardo a questo “trend negativo” Moretti urla: “Come parla? Io non parlo così, io non penso così… Chi parla male pensa male e chi pensa male vive male… Le parole sono importanti!”. La sua rivoluzione era fallita e non trovava più una strada per entrare in relazione con il mondo.
Se le parole sono importanti, alcune parole come dono, perdono, amore, cura e compassione rischiano troppo spesso di essere equivocate e necessitano di un chiarimento non solo sulla possibilità di conferire loro un senso compiuto, ma, prima ancora, per capire dove collocare queste categorie logiche e del linguaggio. La compassione, ad esempio, spesso intesa come partecipazione al destino o alla sofferenza degli altri, va prima di tutto letta all’interno di un contesto etico e filosofico più ampio. Così come l’idea di una buona vita, di un benessere sociale. Il significato che conferiamo alle parole è, infatti, determinato dal retaggio culturale, in base a ciò che comunemente definiamo come un codice comune di appartenenza. Perciò diamo per scontato che il significato di un termine sia quello di uso comune. In realtà, la problematicità del linguaggio si mostra quando ci domandiamo come agire i concetti e i valori che riteniamo prioritari. La scelta si fa critica quando incontriamo una specifica sofferenza, quando non abbiamo alternativa se non compiere uno specifico atto o non compierlo. In quell’istante stiamo incontrando il viso di una persona specifica. L’incontro con quella singola situazione richiede di intervenire, con pragmaticità e concretezza, più che per dovere morale, religioso o politico. In realtà, non possiamo parlare né di libertà, né di compassione, né di società se prima non definiamo una teoria della giustizia, una prospettiva etica, come suggeriscono Rawls e Nussbaum, che mettano in luce quali sono i limiti veri dell’intervento sugli altri: non possiamo parlare di libertà senza partire, prima di tutto, da quelle che sono le nostre libertà fondamentali, della persona in concreto, non della persona ideale. Dunque, quando ci troviamo di fronte a una situazione di sofferenza complessa, definire dove finisce la mia libertà di decidere se intervenire o non intervenire, se esercitare la compassione o non esercitarla è la sfida. Peraltro, la sofferenza più grave è quella creata da un vuoto sostanziale di cura, che è un vuoto d’amore. La malattia individuale e sociale che ne deriva rischia, per paradosso, di essere l’unica chiave di lettura per riempire in modo ossessivo e funzionale quel vuoto esistenziale. Nella mistica ebraica, così come nella cultura greca antica, la malattia era raffigurata come un angelo benefico, un benefico messaggero che ti fa rendere conto che stai vivendo nell’illusione dell’onnipotenza emotiva. La società dell’industria delle emozioni porta a compimento la condizione di malattia esistenziale proprio perché il predominare delle emozioni dell’Uguale ha reso ambigue le parole “cura” e “amore”. […]
La cura è un concetto centrale, una qualità del pensare, dell’agire e del sentire, è rivoluzionaria perché così vasta e completa da comprendere le altre. Ma la sua funzione non si ferma alla sfera individuale, interiore o intellettuale. Al contrario, costituisce la base, il contenitore e la premessa per dar vita a un contesto, una comunità, dove altri aspetti della relazione tra le persone possono essere immaginati, attivati e trasformati in risorse condivise. La dimensione collettiva, allargata, di questa idea di cura, in questo caso, è tanto evidente e implicita da non ridurla a un semplice percorso di ricerca personale e conferirle, invece, una prospettiva relazionale, etica, che si attua in tre momenti: l’esperienza concreta e diretta, un metodo che fa da codice e che consente di comprendere il senso di questa ricerca in modo da renderla attuabile. Infine, il contesto comunitario e relazionale che la rende agibile come precondizione per la realizzazione della comunità stessa. La cura, in questa prospettiva, diventa una disciplina sociale e politica liberatrice e libertaria da attuare, verificare e confermare con l’esperienza diretta.
Il Buddha esortava, in una prospettiva libertaria, a non cedere al dogmatismo e al fideismo ma a verificare ogni passo del percorso spirituale e questo carattere non dogmatico, nello specifico, si trasforma in un richiamo a non considerare la cura solo come un oggetto intenzionale e teorico, ma una responsabilità precisa di fronte alla fragilità della vita, una scelta che va nella dimensione dell’agire la cura stessa quando avviene l’incontro con il volto dell’altro. Se questa qualità contiene tutte le altre, trasformarla in azione significa attivarle tutte. In una rete ideale dove ogni qualità rappresenta un punto di snodo e collegamento con tutti i fondamenti di un’etica della trasformazione, è ad esse collegata e ne consente l’emergere e l’attivazione. Se non esiste spazio per uno solo degli aspetti separato dagli altri, diventa evidente come questa profonda relazione leghi ogni aspetto dell’esistenza così come tutti gli esseri umani. E ci richiami, tutti, a una profonda responsabilità.
I fondamenti per dare corpo a questa etica trasformativa della cura, a questa prassi di guarigione e liberazione sociale sono la gentilezza, che consente alla relazione di riportarci all’unicità, la gioia che aiuta a sviluppare entusiasmo e ad aprirci alla straordinarietà della vita, la libertà dai pregiudizi che permette di sperimentare l’ascolto profondo, la non conoscenza e il non giudizio. E infine la compassione, che sorge come “conseguenza” delle precedenti e genera le condizioni per un’etica pragmatica. Ognuna di queste qualità è un laboratorio e tutte appartengono alla saggezza del mondo e sono risorse grazie alle quali possiamo davvero agire per prenderci cura del nostro cammino di esseri umani su questo pianeta. Questa saggezza senza tempo, infatti, non è una scoperta ma una riscoperta, la riscoperta del valore assoluto e trascendente dell’essere nel mondo. Perciò se viene restituita al tempo può consentire alle persone una vita felice e autentica. La cura è la strada, la rivoluzione che va controcorrente rispetto alla tendenza individualistica della società delle emozioni, allora come oggi, per riportare questa felicità in un contesto dove nessuno può essere escluso e lasciato indietro.