Una volta eravamo tutti cacciatori e tutti raccoglitori. I primi a smettere di fare l’una e l’altra cosa risalgono a non piú di dodicimila anni fa, che è appena un trattino sulla linea umana del tempo. Questo accadeva quando il cibo era abbondante ed eravamo ancora in pochi a mangiarlo. L’Antico Testamento e la seconda sura del Corano, al-Baqarah o «della mucca», presentano questo periodo come una stagione vissuta all’interno di un giardino, un tempo di grande felicità e di perfetta innocenza trascorso appunto nell’Eden.
Esistono molte traduzioni di quest’ultima parola, Eden, ma tutte puntano nella stessa direzione: si va dal sumerico edin, che significa «pianura» o «landa», alla parola aramaica, che invece prende l’accezione di «ben irrigato», per giungere all’ebraico che lo identifica con il «piacere». Nel loro insieme tutte le accezioni suggeriscono che l’Eden fosse una landa ben irrigata, dove il cibo era abbondante, le minacce molto poche e gli esseri umani non avevano bisogno di lavorare. Insomma era un luogo di grande piacevolezza. Ma l’ubicazione di questo giardino del benessere rimane controversa. La Genesi lo colloca genericamente «a est», dove si trovavano «ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male».
L’acqua che irrigava il giardino era divisa per fare «quattro corsi», o fiumi. La Genesi nomina due di questi corsi d’acqua, il Tigri e l’Eufrate, quindi il giardino dell’Eden doveva essere da qualche parte nella pianura mesopotamica, che corrisponde oggi all’Iraq meridionale. Tuttavia Flavio Giuseppe, uno storico di epoca romana, suggerisce che gli altri due fiumi fossero il Gange e il Nilo, e in tal modo la gamma della collocazione geografica dell’Eden si allargherebbe, e di molto, perché il luogo avrebbe potuto trovarsi anche tra gli altipiani armeni o tra quelli iraniani, per non dire delle alture di Shangri-La, nell’odierno Pakistan.
L’idea della perdita di un Eden, che dovremmo tutti impegnarci a recuperare, parla anche al nostro tempo, segnato dalla scomparsa della flora e della fauna, dall’emergenza climatica e dal disastro ecologico. Ma in realtà quel tema riflette un’ansia di antica data, della quale si avverte l’eco in tutto il mondo e in tutte le epoche, dal mitico giardino indú di Nandankanan all’antico giardino greco delle Esperidi, fino al persiano pairidaeza. Quest’ultima parola può essere tradotta come «tutt’intorno muro o mattoni» e allude a un giardino recintato, ossia un parco chiuso: proprio da qui deriva il greco paradeisos e quindi il nostro «paradiso», che è un altro giardino al quale guardiamo con grande speranza. E tuttavia non vi sono dubbi che esista una versione ancora piú antica degli esempi sin qui citati.
Ma qualunque sia l’origine della parola – e a prescindere dal fatto che qualcuno di noi abbia mai assaggiato un frutto proibito in un giardino chiamato Eden – questa storia antichissima ci dice che in un tempo lontano eravamo tutti circondati da «ogni tipo di albero buono da mangiare», che eravamo cacciatori oppure raccoglitori e che approfittavamo dell’abbondanza offerta dalla natura, dalla quale giungeva tutto il necessario per vivere. L’idea dell’Eden e del paradiso è seducente proprio perché promette facilità, innocenza, abbondanza e forse proprio per questo motivo la sua dimensione terrena non era poi cosí violenta. Alcuni antropologi hanno definito i primi cacciatoriraccoglitori come una sorta di «società del benessere originale». Il punto rimane controverso, anche se a me sembra convincente. L’antropologo statunitense Marshall Sahlins ha calcolato, per esempio, che la maggior parte di quei lontani abitanti della terra dedicava circa una ventina di ore alla settimana per nutrirsi, e questo implica che per «la metà del tempo a loro disposizione le persone non sapessero che cosa fare». Ma non è da escludere che lo usassero per ridere, amare, cantare, ballare.
Vi è però anche chi ha guardato alla cosa in modo critico, sottolineando gli inconvenienti della carenza di cibo nel corso delle stagioni, nonché delle malattie e dei conflitti. Ma anche tenendo conto di questi aspetti e del tempo necessario alla preparazione e alla cottura degli alimenti, nonché alle successive pulizie, un cacciatore-raccoglitore medio passava (e passa) molto meno tempo a provvedere al proprio vitto e al proprio alloggio di quanto non faccia un lavoratore urbano del XXI secolo. Inoltre, a differenza di coloro che son costretti a confrontarsi con le ore di punta delle città, con gli ambienti di lavoro raffrescati e con gli ipermercati aperti ventiquattro ore su ventiquattro, i cacciatori-raccoglitori vivevano e lavoravano in un mondo che conoscevano profondamente e che trovavano ricco di ricordi, emozioni, significati.
Per quanto piacevole potesse essere la vita nel primo «Eden» dei cacciatori e dei raccoglitori, essa fu travolta da una tempesta perfetta di circostanze, rese tanto piú drammatiche proprio dalla curiosità e dalla tentazione. Nel racconto della Genesi, a Adamo ed Eva viene detto di muoversi dove piú loro aggrada, ma di non toccare in nessun caso il frutto dei due alberi sacri, l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male. Come è noto, quando, un po’ inevitabilmente, cedono alla tentazione, vengono espulsi per non farvi mai piú ritorno.
È una storia affascinante, ma si dà il caso che rifletta un preciso momento della storia dell’umanità, quando – con l’aumento della popolazione e per via di un possibile cambiamento climatico – la caccia e la raccolta divennero sempre meno vantaggiose e invitanti rispetto all’agricoltura. Questi sono gli elementi che hanno d’altronde segnato la storia di un luogo oggi conosciuto come Göbekli Tepe.
Tratto da “Nomadi” (Neri Pozza), di Anthony Sattin, pp. 432, 28€