Walk on the Wild SideLa nuova biografia di Lou Reed racconta il baratro prima del successo

Il giornalista Will Hermes ha raccontato in un libro uno dei capitoli meno conosciuti della vita della rockstar dell’ambiguità: il periodo nero dall’agosto del 1970 al settembre 1971, prima dell’exploit che lo trasformerà nella degna risposta newyorkese al boom cosmico di David Bowie

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Successo. Successo. Successo. Man mano che i tempi si allungano, che le cronologie si precisano, le biografie si approfondiscono e le testimonianze si accumulano in vista della sistematizzazione, le storie di tutte le future rockstar finiscono per appiattirsi sulla medesima, ostinata ossessione: trovare il successo, assaporare il gusto del trionfale riconoscimento presso un pubblico il più sterminato possibile. Nel vocabolario del pop il contrario di successo è sempre stato infelicità, a dispetto della gratificazione trascurabile del creare, plasmare e presentare un’opera di cui essere legittimamente orgogliosi. Non è niente senza il successo, se non l’anticamera della depressione. 

E dal momento che la cultura anglosassone ha sempre definito, senza complimenti, il baratro che separa l’uomo di successo, blandito, omaggiato, riverito, dal loser, il cascame sociale, non c’è da sorprendersi che parlando di musica, perfino aggirandosi tra le produzioni trasgressive degli anni Sessanta e Settanta, la legge vigente fosse una sola: sfondare. Diventare ricchi e invidiati, anche nella New York City sporca e ribelle dell’epoca, il cui mentore altri non è che Andy Warhol, che col successo intrattiene una rovente relazione dalla più tenera e frustrata età. 

Adesso spunta un’altra vicenda che racconta questa stessa storia, ruotando attorno a una delle figure dell’art-rock più spudorate: Lou Reed. La nuova biografia scritta dal giornalista Will Hermes, “Lou Reed: The King of New York” (che Minimum Fax pubblicherà in contemporanea con gli Stati Uniti il 13 ottobre col titolo “Il re di New York”. La traduzione è di Chiara Veltri e Paola De Angelis), nelle sue pagine più illuminanti propone proprio una fase-chiave nella costruzione della futura, sublime rockstar dell’ambiguità, individuando il momento di più profonda crisi dell’artista, deciso ad abbandonare la carriera musicale, per logoramento da mancanza di successo.

Per chi non conosca il personaggio, serve una premessa: il giovane Lou Reed è quanto di più lontano, per crescita e formazione, dal poeta perverso che sedurrà il mondo con la sua contiguità a ogni forma di peccato dissacrante. Lou è un figlio della cultura suburbana di Long Island, cresciuto in una famiglia ebrea benestante che ha modificato il proprio cognome da Rabinowitz a Reed. Dal padre ha ereditato la passione per la musica e in particolare per il rock’n’roll e presto si dà da fare nel campo, sebbene i suoi genitori sorveglino con preoccupazione il suo carattere ansioso e nevrotico, ricorrendo a strizzacervelli, pesanti dosaggi farmacologici e perfino periodici elettroshock. 

Infine Lou sembra però trovare la sua strada nella Grande Mela, diventando il talk of the town dei salotti radical coi suoi Velvet Underground, prescelti da Warhol come pendant musicale della Factory, con una produzione discografica apprezzata dalla critica, ma sconosciuta al grande pubblico, ignorata dalle radio ed estranea alle classifiche di vendita. 

Lou e i suoi sono dei veri prìncipi a Manhattan, ma quasi niente fuori dall’isola. E il solco sembra tracciato. Poi i rapporti con Warhol si rovinano e la band non smette di arrancare su piccoli palchi davanti a piccole folle di freak e poco altro. Il successo è diverso da tutto ciò e, a ventotto anni suonati, Reed lo comprende perfettamente. 

È in questo momento, in fondo appena prima dell’exploit che lo trasformerà nella degna risposta newyorkese al boom cosmico di David Bowie, che il saggio di Hermes colloca una ricostruzione grondante di debole umanità del quasi-knock out a cui l’artista sembra condannato. 

Tutto avviene nel giro di un anno, dall’agosto del 1970 al settembre 1971: Reed stacca la spina della sua carriera musicale e sceglie di cercare altrove i riconoscimenti a cui si sente intitolato. Tra un set e l’altro dell’ultimo concerto al Max’s Kansas City sulla Park Avenue South, Lou comunica a ciò che resta dei Velvet Underground la decisione di abbandonare il gruppo. Moe Tucker, la batterista a cui è legato da profonda amicizia, ha già smesso di suonare con la band per affrontare la prima gravidanza e i burrascosi rapporti con John Cale hanno provocato l’abbandono di quest’ultimo. 

Ora Lou informa gli altri che per lui la cosa finisce lì, non trova più piacere, né soddisfazioni, né prospettive nell’andare avanti. In platea, ad ascoltarlo, quella notte ci sono anche i suoi genitori, sulla macchina dei quali, come uno sbarbato liceale, Lou a fine concerto torna nella casa di famiglia di Freeport, per concedersi un periodo di riflessione e distacco dall’ambiente che non ha apprezzato fino in fondo il suo passaggio. 

La narrazione degli avvenimenti dei mesi successivi è suggestiva per come distacca la realtà dal mito. Quasi subito Reed sembra intenzionato a riallinearsi al dettato esistenziale dell’America provinciale dell’epoca. Accetta un impiego nella ditta del padre, cerca invano di ricucire i rapporti con una vecchia fiamma e al suo rifiuto inizia a coltivare la relazione con Bettye Kronstad, sua futura consorte. 

Torna in terapia psicoanalitica, gioca a tennis, suo vecchio pallino adolescenziale, conduce una fragile vita da convalescente e poco alla volta sviluppa un nuovo disegno espressivo che si rifà ai brillanti anni accademici: la letteratura, perfino la critica letteraria (pubblica l’apprezzato saggio “Fallen Knights and Fallen Ladies” dedicato ai “martiri del rock” da Hendrix alla Joplin, nella raccolta “No One Waved Goodbye”) e poi, con l’incoraggiamento di stimabili padrini che l’avevano apprezzato coi Velvet, da Allen Ginsberg a Jim Carroll, si proietta nella ribollente arena della poesia: che sia quello il luogo dove finalmente primeggiare, come sente di meritare? E declamando che cosa, se non i testi delle canzoni scritte per la band? 

Gli scicchettosi intellettuali di St.Marks Place paiono adorarlo e lui conforma le proprie apparizioni al nuovo pubblico, intuendo ad esempio l’impatto dell’ambiguità sessuale come valore, ostentando una tensione gay della quale fin lì si è disinteressato. Una ri-focalizzazione, una riscrittura del sé durata dodici mesi senza chitarre e senza concerti, ma con una nuova platea plaudente. 

Se soltanto gli bastasse. Non è così. “Loaded”, l’album uscito dopo il suo abbandono dei Velvet, riceve tardive ma eccellenti recensioni e Lenny Kaye su “Rolling Stone” ne parla come del disco dell’anno. La versione di “Sweet Jane” editata a formato radiofonico comincia a spopolare nelle college radio. Quando Carmen Capalbo, una regista off-Broadway, gli propone di scrivere le musiche per il suo adattamento musical del romanzo di Nelson Algren “A Walk On the Wild Side”, Lou rifiuta l’offerta, ma resta conquistato da quel titolo e da quella storia. È il punto della ripartenza. Con la chitarra acustica scrive i pezzi nuovi, da solo. Il potente talent scout della Rca Richard Robinson li ascolta e gli fa firmare subito un nuovo contratto con la major. Adesso la strada è quella giusta ed è spianata. 

La poesia per Lou torna un fattore di contorno, la concentrazione va tutta nell’allestimento del personaggio, perfetto per conquistare il mondo del rock affamato di scandali ed eccessi. Ha un piano in testa e il talento per renderlo operativo. Non si volterà più indietro. Ma di tanto in tanto, soprattutto negli ultimi anni di vita, si concederà di ricordare com’è stato difficile, quasi impossibile farcela. E che è sempre stato quello, e solo quello, il sogno che ha inseguito, conquistato e difeso: celebrità, a tutti i costi. Con ogni mezzo necessario.

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