Sindrome dell’abbandonoIndagine su un entroterra dimenticato, i suoi volti, luoghi e potenzialità

In “L’Italia vuota. Viaggio nelle aree interne” (Editori Laterza), Filippo Tantillo racconta il suo peregrinare nelle zone rurali italiane. Spesso svuotate dalla popolazione locale e trascurate dalle politiche nazionali, rappresentano invece un asset nella transizione ecologica ed economica del Paese

Unsplash

Una parte del nostro Paese negli ultimi anni è sparita dal discorso pubblico e dall’agenda politica. Costituisce più della metà del territorio nazionale ed è abitata da almeno 13 milioni di persone, vale a dire circa il 22% di tutti gli italiani. Derubricata come l’ultimo residuo dell’Italia rurale, una vandea abitata da una popolazione anziana e antimoderna, oggi appare sulla mappa demografica del Paese come un arcipelago di luoghi vuoti, quasi senza più abitanti. Delle enclave dimenticate, nel secolo delle scintillanti metropoli globali colte, dematerializzate, creative, libere. […]

Negli ultimi trent’anni gli investimenti pubblici e privati hanno seguito la tendenza neoliberista ad accentrare la ricchezza in poche mani e in porzioni sempre più piccole del territorio nazionale: per fare scuole più selettive, università competitive, ospedali all’avanguardia, per attrezzare siti culturali per i grandi eventi, costruire edifici residenziali green e di lusso; mentre sul resto del Paese si interveniva in maniera residuale, o al massimo compensativa, per non lasciarlo troppo indietro, per non scatenare il risentimento dei cittadini.

Le politiche di austerità e i tagli lineari ai servizi seguiti alla crisi del 2008 hanno determinato, poi, un crollo della vivibilità di questi territori e hanno innescato una crisi demografica come non se ne vedevano da decenni. Le scuole e gli ospedali si sono allontanati, gli uffici e i negozi sono spariti, il valore delle abitazioni è crollato, trascinando con sé i risparmi delle famiglie. Le persone, come già era successo nella prima fase dell’industrializzazione del Paese, hanno ripreso ad andar via, sfilacciando le comunità, rendendole più fragili di fronte al moltiplicarsi degli eventi estremi, dai cambiamenti climatici ai terremoti e alle pandemie. Così sono cresciute le disuguaglianze con i grandi centri urbani. I giovani dei paesi si sono trovati privati della possibilità di costruire e sognare come i loro coetanei di città, intrappolati in una condizione di ritardo permanente in posti considerati da tutti, e in primis da loro stessi, “fuori dal mondo”.

Oggi questi “posti fuori dal mondo” non sono più come un tempo gli spazi della natura selvaggia, ma porzioni sempre più grandi di terre abbandonate o dimenticate dalla determinazione ordinatrice della dottrina economica, dello Stato, del mercato. Sono diventati luoghi d’elezione del “selvatico”, delle piante pioniere, alloctone, dell’ailanto, del pino mugo, e dove sono tornati a mostrarsi anche i grandi predatori come l’orso o il lupo. Territori dalla destinazione incerta, e, per traslazione, dell’imprevisto, del possibile, l’alter ego delle città, il cui futuro è in qualche maniera già scritto, con le quali hanno una relazione osmotica, di reciprocità.

Di fronte alla crisi climatica ed energetica gli scienziati, anche quelli sociali, e alcuni pezzi di società e di politica, hanno cominciato a rendersi conto che questi spazi rappresentano una riserva di fonti energetiche primarie, di acqua, di vento, di biodiversità, ma anche di una varietà produttiva e di una agricoltura che, grazie alla morfologia accidentata del nostro Paese e alla varietà di climi, non hanno pari in Europa. E ancora di beni culturali diffusi, di memorie e saper fare, di capacità di immaginare e sperimentare anche al di fuori del perimetro dell’economia di mercato, tutti elementi ai quali vale la pena porre attenzione in vista di una transizione ecologica ed economica non più rinviabile. In altre parole ci si è resi conto che trascurarli è stato un grave errore, e che invece hanno un grande valore strategico. Contengono, molto più di quanto si pensi, tanto le cause delle crisi attuali quanto le possibili soluzioni.

Si è cominciato dunque a chiamarli “aree interne”, anche se in molti casi si allungano fino al mare, e a destinare loro una politica di investimento dedicata, sottraendoli alla competizione con le città, da cui escono sempre perdenti.

Così è nata nel 2012 la Strategia nazionale per le Aree Interne, grazie a un’iniziativa dell’allora ministro alla Coesione territoriale Fabrizio Barca, una politica pubblica a favore di questa parte di Paese, un grande disegno formato da piccoli progetti, con il quale si prende atto che tutto ciò che è stato fatto fino ad ora non è stato sufficiente per frenare l’esodo da queste aree, e che bisogna cambiare strada, interrogare le strategie di sopravvivenza delle persone e far leva sul loro desiderio di cambiamento. Nella convinzione che le scelte capaci di dare un futuro al nostro Paese non possono essere efficaci se decise in luoghi distanti e stanze oscure, da esperti tutto fare che per definizione sanno già come andranno a finire le cose, e le cui previsioni si dimostrano sistematicamente sbagliate. Occorre invece andare nei posti e intercettare le dinamiche che li attraversano, ascoltarne e raccoglierne bisogni e desideri, fare tesoro delle esperienze e trasformarle in strategie di futuro.

Questo è successo anche perché nel frattempo questa “Italia vuota” è diventata anche lo spazio dove nuovi cittadini, giovani e migranti traditi dalle promesse mancate del benessere e del mercato, espulsi dalle città, si installano per sperimentare insieme nuovi modi di fare società e nuove economie della cura, non estrattive e durature, capaci di rigenerarsi: organizzazione collettiva e resistenza sono pratiche diffuse tra chi vive in queste zone. Si tratta di pratiche che insidiano un modello economico stanco, autodistruttivo, in perdita di consenso, e che sono portatrici di una nuova visione che connette giustizia sociale e ambientale, che rischia di diventare egemone e che sembra terrorizzare una buona parte della classe dirigente. […]

Qui le infrastrutture, gli asili nido, gli ospedali, gli impianti di depurazione non riescono a far fronte alla pressione crescente. I prezzi delle case vanno alle stelle, aumentano povertà e disagio sociale, peggiorano tutte le condizioni ambientali. Cresce l’infelicità dei cittadini. Il crescente squilibrio demografico del Paese pesa come un macigno sul nostro futuro.

E, osservata dai margini, la crescita delle diseguaglianze sociali e territoriali sta raggiungendo un livello insostenibile per un sistema democratico. E non è possibile capire la salute democratica del nostro Paese senza considerare quella stragrande parte del territorio nazionale che perde popolazione. L’Italia per crescere ha bisogno di più diritti, meno gerarchie, meno discriminazioni, più dialogo in tutti i luoghi, a partire dai più piccoli, nelle famiglie, nelle scuole, nelle piazze, nei boschi, nelle case, nei luoghi e nei tempi di lavoro. Di dare più valore all’intelligenza delle persone che la abitano. […]

Ho sempre pensato che il lavoro sui luoghi e sulle persone che vivono i margini geografici e sociali, nelle piccole comunità, fosse una sorta di esplorazione al microscopio di quei fenomeni che ci vengono raccontati, di volta in volta, come irreversibili, ineluttabili, inevitabili, per riportarli ai loro meccanismi minimi, più aggredibili, e per restituire quindi all’uomo e a ciascuno di noi la capacità di cambiare il mondo.

Ma nella ricerca sui territori, viaggiando ed entrando in relazione con le persone, a una fase di osservazione e di dispersione segue sempre una fase di raccoglimento. Ogni tanto è necessario fermarsi, guardarsi indietro e unire i puntini, affinché diventino un percorso.

Tratto da “L’Italia vuota. Viaggio nelle aree interne”, di Filippo Tantillo, Editori Laterza, pp. 224, 15 euro.

X