Qualcuno in vena di freddure potrebbe buttare lì che con Nicola Gratteri a capo della procura napoletana è finita la pacchia per i cinici mercanti di morte. Qualcuno più serio osserverebbe che se il più illustre e potente magistrato d’Italia è uno che tiene certi comportamenti e manifesta certe idee sull’amministrazione della giustizia, allora il problema non è lui ma il Paese che ne lascia correre gli spropositi.
E infatti il problema non è solo il rastrellamento giudiziario di trecentocinquanta persone: il problema è la conferenza stampa tra due ali di carabinieri e in faccia a una foresta di microfoni e telecamere, con il conferenziere che fa promotion del blitz spiegando che in quel modo va compiendosi la sua «rivoluzione», il riordino della società corrotta da smontare e rimontare come un giocattolo.
Il problema non è la triste contabilità negativa delle indagini e delle richieste di arresto a fronte del puntuale prosieguo di scarcerazioni e assoluzioni: il problema è il giornalismo che non solo non gliene chiede conto, ma si ciuccia impassibilmente la spiegazione che insomma, vabbè, un po’ di innocenza in galera è fisiologica.
Il problema non è la prefazione ai libri di autori che reiterano i peggio stereotipi di propaganda neonazista, e in piena pandemia scrivono che i vaccini sono acqua di fogna e che Big Pharma, appunto, è in mano agli ebrei: il problema è l’impunità che assiste una simile attività di condivisione culturale ed editoriale, che non è intrapresa da un qualunque signor Rossi in un cenacolo di spostati ma da un pubblico funzionario dotato del potere non indifferente di far mettere in galera i propri simili.
Ancora, ma l’elenco sarebbe ben più lungo, il problema non è l’indagine giudiziaria improbabile, agghindata di titoli da serie streaming: il problema è il documentario che ne fa la televisione di Stato, con il protagonista che commenta l’indagine in corso per poi passare allo speciale della Tv commerciale in concorrenza forcaiola, dove la star togata incassa dalla giornalista di tre quarti l’augurio di «buon lavoro».
E tutto questo senza che succeda nulla. Tutto questo, anzi, in un trionfo di elogi pari per inverecondia a destra e a sinistra. Perché guai mettere in dubbio la vergognosa demagogia corrente, e cioè che se non batti le mani a quell’impostazione vuol dire che stai coi mafiosi. Guai tirare su la schiena e dire chiaro e tondo che avere un’altra idea di giustizia non significa simpatizzare per i corrotti. Guai – figurarsi! – far sapere che si può anche essere in perfetta buona fede, si può anche lavorare in modo completamente benintenzionato, si può anche vantare una onestà personale indiscutibile, senza che tutto questo dia garanzia di adeguatezza nell’amministrazione della giustizia. Specie quando dell’opposto, e cioè di una drammatica e pericolosa inadeguatezza, si è data plurima prova proprio in nome e nell’esibizione di quelle impeccabili qualità.