ForzalavoroLa guerra dei numeri sui poveri, lo sciopero dell’auto negli States e il nuovo linguaggio in ufficio

Nella newsletter di questa settimana: perché nel rapporto Inps dell’era meloniana i working poor si sono ridotti da 4,3 milioni a 20.300; la questione del licenziamento del portavoce della Cgil; la Fashion Week di Milano e le professioni più ricercate nella moda. Ma anche la riduzione delle ore di formazione nella bozza del nuovo accordo Stato-Regioni sulla sicurezza e la ricerca di un “Taylor Swift reporter”

(Unsplash)

La scorsa settimana è successa una cosa strana: nel dodicesimo rapporto annuale dell’Inps, i working poor, i lavoratori poveri, si sono ristretti. Da 4,3 milioni nel 2022 a 20.300 nel 2023. L’Inps ha spiegato che quelli che lavorano a tempo pieno e che sono poveri «per ragioni salariali» – cioè perché guadagnano poco – sono solo 20.300, lo 0,2 per cento dei dipendenti italiani. Un anno prima, lo stesso rapporto ne aveva calcolati 4,3 milioni sotto i 9 euro l’ora, la soglia indicata per il salario minimo.

Che è successo?
La differenza evidente nei numeri ha generato polemiche e accuse di «tortura dei dati» per compiacere il governo di turno. Il rapporto 2022 era stato stilato quando alla presidenza dell’Inps c’era Pasquale Tridico, il prof calabrese in quota Cinque Stelle, grande sostenitore del salario minimo. Al suo posto, Giorgia Meloni poi ha nominato una commissaria straordinaria, Micaela Gelera, espressione di un governo che il salario minimo non lo vuole.

E quindi che fine hanno fatto i lavoratori poveri?
Non sono scomparsi, semplicemente è cambiato il modo di contarli. Nel rapporto Inps di quest’anno vengono considerati solo quelli che lavorano tutto l’anno a tempo pieno. Fino all’anno scorso l’Inps considerava tutti, quindi anche quelli con contratti part-time, a tempo, stagionali, agricoli e domestici. Ed è per questo che i poveri ora sono molti di meno.

  • Nb: Secondo la classificazione dell’Inps, i “lavoratori poveri” sono quelli con una soglia di retribuzione giornaliera lorda sotto i 24,9 euro per i part-time e 48,3 euro per i full time. L’Inps non usa come soglia quella dei 9 euro l’ora, ma si riferisce allo standard europeo del 60% della retribuzione mediana, che corrisponde a circa 7,5 euro l’ora. Nel mese di ottobre 2022, i lavoratori poveri sotto queste soglia sono stati 871.800, il 6,3 per cento del totale. Di questi, 355mila sono a tempo pieno e 517mila a part-time.

E il salario minimo?
Il ragionamento dell’Inps è che se da questo insieme si tolgono quelli che lavorano poche ore o pochi giorni – a «bassa intensità di lavoro» – si arriva ai 20.300. Troppo pochi, dicono, perché il salario minimo abbia un impatto rilevante.

Il problema – concludono – non sono quindi i salari, ma i contrattini, le false partite Iva, i finti tirocini e stage, oltre che il lavoro nero. Sono quelle che l’Inps definisce come «aree borderline» rispetto ai contratti da dipendente. I settori più a rischio: edilizia, servizi alle imprese, alloggio e ristorazione. Apprendisti, intermittenti e somministrati le figure più in pericolo.

La lettura che dà l’Inps di fatto rende inutile la proposta di salario minimo a 9 euro l’ora arrivata dalle opposizioni. Se non in via sperimentale e circoscritta ai settori in cui sono più diffusi i contratti più deboli. Che poi è il compito che Meloni ha dato al Cnel guidato da Renato Brunetta, che dovrà presentare una proposta entro il 10 ottobre.

I numeri che non tornano
Nell’audizione sul salario minimo dello scorso luglio, l’Istat ha spiegato che i rapporti con retribuzione oraria inferiore ai 9 euro lordi sono quasi un quinto del totale (il 18,2%, circa 3,6 milioni di rapporti) e coinvolgono circa 3 milioni di lavoratori. L’istituto spiega anche però che «a determinare la condizione di dipendente a bassa retribuzione sono gli effetti legati a una ridotta durata dei contratti di lavoro e a un numero contenuto di ore lavorabili, oltre a quelli – pur rilevanti – legati a un basso livello di retribuzione oraria».

Secondo la commissione presieduta dall’economista Andrea Garnero, incaricata dall’ex ministro Andrea Orlando di stilare un rapporto sul lavoro povero, i lavoratori poveri sono invece il 13,2 per cento, quelli a bassa retribuzione il 31 per cento. Anche in questo caso, i numeri sono più alti perché si considerano tutti i lavoratori, non solo quelli a tempo pieno. Ma in questo caso, come per l’Inps, si tiene conto dello standard del 60% della soglia mediana e non dei 9 euro l’ora.

Quindi?
È ovvio che se si guarda solo a chi lavora a tempo pieno i working poor sono di meno. Ma il part time e i contratti a tempo in Italia sono elevati, soprattutto in alcuni settori come il turismo o la ristorazione. Il lavoro povero, insomma, dipende sia dai bassi salari sia dalle poche ore di lavoro. Guardare solo ai salari orari è come guardare solo una piccola parte della fotografia.


Il mistero dei contratti
E ora passiamo ai contratti, visto che l’altra proposta per ridurre il lavoro povero è rafforzare la contrattazione collettiva.

La commissaria dell’Inps Gelera nel rapporto dice che quei 20mila lavoratori poveri per «ragioni salariali» sono «distribuiti tra un numero rilevante di contratti collettivi nazionali di lavoro, inclusi quelli con le platee più vaste e firmati dalle organizzazioni sindacali maggiori».

Quindi non sarebbe solo un problema di contratti pirata. Che comunque per l’Istituto, non rappresentano un allarme. I contratti collettivi nazionali di lavoro vigenti sono 966. Di questi, quelli applicati ad almeno un dipendente, sono 832. Ma i 28 contratti più grandi, che riguardano almeno centomila persone, coprono quasi l’ottanta per cento dei dipendenti. Se si aggiungono anche i contratti medi, che riguardano tra diecimila e centomila lavoratori, si arriva a oltre il novantacinque per cento dei dipendenti totali.

In totale, scrive l’Inps, 99 contratti coinvolgono la quasi la totalità dei dipendenti. I contratti micro, invece, riguardano solo lo 0,4 per cento dei dipendenti, cioè meno di cinquecentomila persone. E oltre il novantasei per cento risulta coperto da un contratto firmato da una delle tre maggiori organizzazioni sindacali, ovvero Cgil, Cisl e Uil. E gli altri contratti registrati?

Le domande, suggerite da Andrea Garnero, a questo punto sono due:
1. Perché un’azienda si prende la briga di scrivere un contratto, con i costi che questo comporta, e di registrarlo al Cnel, se poi non intende utilizzarlo?
2. E perché i salari orari effettivi non riflettono quelli dei contratti collettivi?

Se qualcuno vuole/sa rispondere, attendiamo le vostre email!

 

L’ANGOLO DEL GIUSLAVORISTA
Portavoce e Jobs Act Massimo Gibelli, storico portavoce della Cgil, ha detto di essere stato licenziato tramite l’utilizzo del Jobs Act da parte del sindacato che si è opposto con più forza alla riforma voluta dal governo Renzi. Ma sarà vero? Labour Weekly spiega che anche prima dell’approvazione della riforma del lavoro renziana, salvo casi rarissimi, i dipendenti delle «organizzazioni di tendenza» come il sindacato non godevano delle tutele previste dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, ma avevano una protezione minima in caso di licenziamento illegittimo.

 

SETTIMANA DELLA MODA
Dal 19 al 25 settembre a Milano si tiene la Fashion Week. Il settore della moda italiano, con oltre 66mila aziende, ha una domanda di posti di lavoro che supera di gran lunga l’offerta: Unioncamere prevede tra le 63mila e le 94mila nuove assunzioni di professionalità specializzate entro il 2026. Quello che forse non si sa è che si cercano anche periti, ingegneri e chimici.

 

SICURI SICURI?
La bozza finale del nuovo accordo Stato-Regioni in merito alla sicurezza sul lavoro, prepara dal ministero, porta da 16 a 10 le ore di formazione per i lavoratori dei settori a rischio alto come edilizia e siderurgia. E consente la possibilità di seguire il corso a distanza, in modalità e-learning, anche per la formazione specifica, quella da fare sul campo: procedure di primo soccorso, esodo e incendi, movimentazione merci, rischi infortuni, rischio chimico.


IN AGENDA

  • Oggi torna a riunirsi il tavolo tecnico sulle pensioni al ministero del Lavoro: questa volta si parlerà di previdenza complementare.
  • Il 19 settembre l’Ocse diffonde il suo Interim Economic Outlook. Sarà utile per capire quanto sono gravi i venti di recessione che spirano.
  • Il 20 settembre la Fed decide sui tassi di interesse.
  • Il 22 settembre il ministro Urso incontra i sindacati per parlare di inflazione, l’Istat diffonde i conti economici nazionali, la Fiom si riunisce in assemblea e al Cnel si tiene la cerimonia di insediamento della undicesima consiliatura con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

 

COSE DI LAVORO

✊ Senza auto Prosegue negli Stati Uniti lo storico sciopero del sindacato United Auto Workers  (Uaw) per il rinnovo del contratto collettivo. Lo Uaw chiede un aumento salariale del 40 per cento. Nel fine settimana sono andati avanti i colloqui con General Motors, Ford e Stellantis, ma senza arrivare a un’intesa. Molti siti produttivi sono paralizzati e ora le case automobilistiche stanno comunicando ai lavoratori di non presentarsi in fabbrica.

 

🤟 Si assume Ci sono i giornalisti che seguono un partito, quelli che seguono il premier e quelli che seguono… Taylor Swift. Sul sito Gannett Careers’ Dayforce è apparso un annuncio intitolato “Taylor Swift reporter”. Usa Today e The Tennessean, in pratica, cercano un giornalista che si occupi esclusivamente della cantautrice, «con un flusso costante di contenuti su più piattaforme».

 

🤌 Come parliamo Uno studio di Barclays LifeSkills ha rilevato che il linguaggio nei luoghi di lavoro è diventato ormai molto meno formale. E la generazione Z sembra essere alla testa di questo cambiamento. Diverse espressioni, come “distinti saluti” alla fine di un’email, sono destinate a scomparire.

 

🤞 Domanda finale Vista la risalita dei casi Covid-19 e l’autunno alle porte, viene naturale chiedersi: le aziende sono pronte a gestire una eventuale nuova ondata?

 

 

Per oggi è tutto.

 

Buona settimana!

 

Lidia Baratta

 

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