Le mani. In politica sono importanti. Le mani possono minacciare, blandire, strozzare, applaudire, carezzare. E allungarsi, avide, come quelle del lupo cattivo. Le mani eseguono quello che il cervello dice loro di fare, dunque sono subalterne ma implacabili. Le mani della destra, di questa destra autarchica, su tutto, come se la politica che ormai identifica con se stessa, si riprendesse tutto quello che è suo ma anche molto di più. Se oggi vuoi collaborare con la Rai o fare un saltino di carriera, dopo l’inevitabile segnalazione dei Fratelli, devi prendere la tessera, te lo chiedono, non te lo impongono, ma alla fine per amore o per forza la tessera la prendi: lo sappiamo per certo. E certo che così il tesseramento è triplicato.
Le mani allora si allungano: ieri sul Maxxi, poi sulla Buchmesse di Francoforte, adesso sulla Biennale di Venezia, nessuna sorpresa, lo avevamo scritto qui il 26 agosto che Pietrangelo Buttafuoco sarebbe diventato presidente di quest’ultima. Detto fatto, Sangiuliano Gennaro ha fatto la grazia. Alessandro Giuli, Buttafuoco. Non è in discussione la persona (anche se…), peraltro già fulminato anni fa dagli strali di Meloni perché convertito all’Islam. Colpisce piuttosto l’ardore che accompagna la nomina: «abbiamo espugnato la Biennale», «abbiamo preso un feudo della sinistra», fino all’«abbiamo sfondato il tetto di cristallo», ha detto l’onorevole Raffaele Speranzon, ruspante Fratello veneto, ignorando che è una frase tipica delle rivendicazioni femministe.
È come a Risiko: la Biennale di Venezia come la Kamchatka! Dicono: era roba della sinistra, adesso è nostra. Vero e falso al tempo stesso. Era della sinistra non perché questa fosse al governo ma perché, piaccia o no, (il più delle volte, mica sempre eh) aveva gente di un certo spessore.
Ma questi considerano ormai l’Italia cosa loro, pezzo a pezzo, da spolpare e mangiare con le mani nell’idea in cui si frullano che autarchia e spirito di rivalsa. Pensano che le casematte del Potere e della Cultura spettino a loro in omaggio al ventisei per cento di settembre di un anno fa, infatti «ci saremo altri quattro anni» ha urlato la presidente del Consiglio, tutta un fascio di nervi – e non può essere solo colpa di Giambruno – a una opposizione che poverina non fa male a una mosca.
Le mani dunque, comunque e ovunque. È la mano, fin dai tempi dei tempi, che dona la salvezza, toccando. È la mano che crea, è la mano che decide. Le mani della destra sono state per lungo tempo inattive – se non in episodi poco commendevoli – ora invece toccano e salvano, elevano gli amici di sempre, perennemente emarginati. Musei, cultura, cinema (Sangiuliano Gennaro però è stato respinto con perdite sul suo proposito di sforbiciare i fondi) televisione (ahi, qui non sta andando troppo bene, chiedere a Pino Insegno e a starlette varie, “mogli di” o con il tesserino dell’Ordine dei giornalisti in tasca).
Ma non basta. Perché questa è la destra che si fa Dio che tutto dispone: ci hanno votato, no? Noi non siamo la Democrazia cristiana che ti lascia in pace e nemmeno Silvio Berlusconi che ti fa divertire, no, noi siamo lo Stato e abbiamo il diritto e il dovere di entrare nei tuoi conti correnti se non hai pagato, le nostre mani saranno inflessibili nell’esecuzione della sentenza come quelle del boia che cala la lama sul collo del condannato, altro che le mani nelle tasche degli italiani: noi siamo il Governo, diamine, e il Parlamento deve obbedire, quattro decreti a settimana e legge di Bilancio inemendabile e chi si ferma è perduto, diceva il Mascellone, come lo chiamava Gadda.
E pure il Cnel è nostro, e sulla Cisl ci stiamo lavorando. In quanto ai cosiddetti alleati, Antonio Tajani si accontenti del sei-sette per cento e di fare il ministro degli Esteri, idem per Matteo Salvini e Mediaset non s’intrometta, al resto pensiamo noi.
In questo superomismo (di una donna) matura la convinzione di poter fare tutto, o quasi, «ciò che non mi distrugge mi rende più forte», disse Nietzsche con una frase che sembra sintetizzare il famoso video egiziano di Giorgia ferita ma mai doma. Le mani sulla città chiamata Italia in la stessa frenesia che aveva Rod Steiger nel film di Rosi con un tocco di esaltazione pre-politica che farebbe venire qualche brivido se non fosse che stiamo parlando di Buttafuoco e Insegno, non di Giovanni Gentile e Alfredo Rocco. Ma che circonda di un’aura sinistra – ironia – questo funzionamento a ritmo continuo delle mani sull’Italia di Giorgia e i suoi Fratelli.