Le acque restano sempre agitate, ma si prova a evitare che le possibili mareggiate si trasformino in tsunami. Xi Jinping ama le metafore navali, le ha citate più volte negli ultimi anni. E alle «acque turbolente» da «solcare» per avanzare lo sviluppo della Cina nel prossimo futuro ha fatto riferimento nel momento più importante, il discorso di chiusura del XX Congresso del Partito comunista dell’ottobre 2022 che gli ha consegnato il terzo mandato da segretario generale.
Dietro le turbolenze a cui ha fatto più volte riferimento Xi ci sono dietro vari elementi, dal rallentamento economico ai conflitti globali, ma nella prospettiva di Pechino ci sono anche (e soprattutto) gli Stati Uniti. Dalla guerra commerciale in poi, il deterioramento dei rapporti è stato continuo. Dall’ambito economico si è passati a quello tecnologico, arrivando poi a quello strategico e ideologico. Con un unico vero momento di apparente distensione, rappresentato dall’incontro tra Xi e Joe Biden a margine del summit del G20 di Bali nell’autunno del 2022.
Nelle ultime settimane lo slogan di entrambe le parti sembra diventato quello: tornare a Bali. Per farlo, si prepara il secondo incontro faccia a faccia tra i due presidenti. Stavolta a San Francisco, al summit della Cooperazione economica Asia-Pacifico (APEC) in programma dal 15 al 17 novembre. Sarebbe la prima visita di Xi negli Stati Uniti dal 2017. Sei anni, un altro mondo. Questa volta non ci sarà Arabella, la nipote dell’allora presidente Donald Trump che accolse Xi recitando un antico poema in lingua cinese. Ma l’incontro sarebbe comunque significativo. La visita dei giorni scorsi del ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha prodotto un sostanziale accordo sul bilaterale dopo i colloqui col segretario di Stato Antony Blinken, il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan e lo stesso Biden alla Casa Bianca.
Negli ultimi mesi si è lavorato molto per aprire la strada alla visita. Durante l’estate, si sono succedute diverse missioni di membri dell’amministrazione Biden a Pechino. Prima Blinken, poi la segretaria al Tesoro Janet Yellen e quella al Commercio Gina Raimondo, infine l’inviato speciale per il Clima John Kerry. Non solo. Sono stati schierati anche i grossi calibri dell’imprenditoria come Tim Cook di Apple (che sta avendo qualche problema con Pechino) e Pat Gelsinger di Intel, tra gli altri. Ed è arrivato nella capitale cinese persino il centenario Henry Kissinger, l’uomo che avviò l’avvicinamento tra Stati Uniti e Repubblica Popolare con la sua storica missione segreta del 1971.
Una serie di colloqui che non ha prodotti accordi particolari, ma ha consentito la ripresa del dialogo su una serie di dossier che erano bloccati da tempo. Nelle ultime settimane, c’è stato un ulteriore cambio di marcia. La prima delegazione bipartisan del Congresso degli Stati Uniti si è presentata in Cina dopo quattro anni, guidata dal falco Chuck Schumer.
La scorsa settimana è arrivato anche Gavin Newsom, primo governatore a Pechino dal 2019. Nello stesso lasso di tempo, ci sono state invece innumerevoli delegazioni congressuali o governatoriali a Taipei, dall’altra parte dello Stretto di Taiwan. Non sfugga che Newsom è il governatore della California e sarà di fatto il padrone di casa del summit APEC al quale si dovrebbe presentare Xi. L’esponente democratico ha peraltro dato garanzie esplicite sul fatto che gli Stati Uniti non perseguono l’indipendenza di Taiwan. Musica per le orecchie di Pechino, la cui riunificazione (o unificazione come viene considerata a Taipei) resta un obiettivo non negoziabile. Anche da parte cinese è stato mandato qualche segnale di apertura. Ricevendo Schumer e Newsom, Xi ha sottolineato che i rapporti tra Cina e Stati Uniti sono «i più importanti al mondo».
Poco prima del viaggio di Wang a Washington, le aziende cerealicole cinesi hanno partecipato a una cerimonia formale di contratti per l’acquisto di prodotti agricoli statunitensi. È la prima volta che accade dal lancio della guerra commerciale con l’innalzamento dei dazi di Donald Trump. La mossa ha un valore doppiamente simbolico. Primo: tutto partì proprio dai prodotti agricoli. Secondo: gli accordi sono stati siglati in Iowa, Stato con cui Xi ha un rapporto speciale. Nel 1985, a trentadue anni e all’alba della sua carriera nel Partito, vi si recò alla guida di una delegazione agricola. Nel 2012 ci tornò in veste di vicepresidente, pochi mesi prima della sua ascesa al potere. Un legame utilizzato sovente in modo retorico per puntare agli scambi people-to-people, aggirando la politica statunitense descritta come «ostile». Insomma, parafrasando: «La Cina va d’accordo con la popolazione e col mondo imprenditoriale degli Stati Uniti, le tensioni sono solo colpa della politica americana che ci si mette di mezzo per volontà di egemonia globale».
La scorsa settimana si è tenuto anche il primo incontro del nuovo gruppo di dialogo economico, frutto della visita in Cina di Yellen. Resta invece otturato, quantomeno ai livelli più alti, il dialogo in materia di difesa, interrotto ad agosto 2022 dal governo cinese in reazione alla visita dell’allora presidente del Congresso Nancy Pelosi a Taipei. Eppure, anche qui arrivano segnali di una possibile riapertura.
Il 29 ottobre è cominciato a Pechino lo Xiangshan Forum, il più importante appuntamento multilaterale in materia di difesa ospitato dalla Cina. Oltre al ministro della Difesa russo Sergei Shoigu, è presente anche una delegazione del Pentagono. Non certo una cosa scontata. Fin qui, la Cina ha rifiutato il riavvio del dialogo utilizzando come scusa la mancata rimozione delle sanzioni contro il ministro della Difesa Li Shangfu, in vigore dal 2018 per l’acquisto di armamenti dalla Russia quando era responsabile delle forniture dell’Esercito popolare di liberazione.
Allo Shangri-La Dialogue di Singapore, a giugno, Li respinse la richiesta di bilaterale del segretario della Difesa americano Lloyd Austin. Ma, attenzione, il 24 ottobre Li è stato rimosso dal suo ruolo appena sette mesi dopo la nomina. Non sono state fornite spiegazioni, ma ci sarebbe dietro un’indagine per corruzione in qualche modo collegata all’improvviso siluramento dei vertici delle forze missilistiche annunciato a inizio agosto. Li non è stato rimosso pensando agli Usa, ma la sua uscita di scena toglie un ostacolo al dialogo, anche se ancora non è stato ufficializzato il suo sostituto.
È proprio sul fronte militare che rischiano di deragliare i tentativi di riavvicinamento. Domenica 22 ottobre ci sono state due collisioni tra navi cinesi e filippine in acque contese sul mar Cinese meridionale. Biden ha ricordato a Pechino gli impegni di sicurezza che legano Washington a Manila, paventando un intervento della marina statunitense nel caso di un attacco contro mezzi filippini. La Cina ha risposto, come sempre, che gli Stati Uniti «non hanno diritto di interferire» nella regione. Poco dopo le forze armate delle due potenze hanno rilasciato video di incidenti sfiorati tra rispettivi jet e navi, con accuse incrociate.
Anche a livello politico-retorico, le distanze restano e resteranno siderali. Dalla guerra in Ucraina al nuovo conflitto in Medio Oriente, Stati Uniti e Cina si osservano con reciproco sospetto, mirando a denigrare l’avversario nelle rispettive narrative presso le democrazie liberali o il cosiddetto Sud globale. Ma entrambe le potenze hanno motivi per cercare non tanto un disgelo, quanto una stabilizzazione del disaccordo, nonostante l’incombente campagna elettorale per le presidenziali statunitensi alzerà presumibilmente il livello retorico su Pechino. Gli Stati Uniti hanno già due fronti aperti e due alleati da sostenere anche militarmente. Non ci si può permettere un terzo fronte, che sarebbe peraltro forse il più importante di tutti nella prospettiva statunitense, cioè il Pacifico. La Cina ha invece la priorità di stabilizzare la situazione economica.
Negli scorsi giorni, è stato approvato un nuovo pacchetto di stimoli e Xi ha visitato per la prima volta la sede della Banca centrale. E il leader non può mancare un nuovo appuntamento multilaterale dopo aver già disertato il summit del G20 di Nuova Delhi, per non alimentare i dubbi sulla situazione interna, dove è stato peraltro costretto a rimuovere due suoi fedelissimi dal ruolo di ministri (prima di Li Shangfu, a luglio era toccato al ministro degli Esteri Qin Gang) nel giro di pochi mesi.
Ecco perché l’incontro Biden-Xi a San Francisco sembra voluto da entrambe le parti. Palloni aerostatici permettendo, vista la vicenda che fece saltare all’ultimo momento la visita di Blinken a Pechino lo scorso febbraio. Non a caso, Wang ha avvisato che «la strada verso il vertice di San Francisco» non sarà facile e che non si procederà col «pilota automatico». Da Bali in poi, secondo la retorica cinese gli Stati Uniti non rispettano con le azioni le promesse o le garanzie di «rispetto reciproco» date a parole. Il riferimento è a Taiwan, ma anche al rafforzamento dell’architettura di sicurezza in Asia-Pacifico, che la Cina percepisce come un tentativo di contenimento o accerchiamento. E infine alle restrizioni in materia di microchip e intelligenza artificiale, con la strategia di riduzione del rischio che Pechino sostiene sia una sorta di disaccoppiamento mascherato.
La priorità cinese è quella di garantire che Xi riceva una buona accoglienza a San Francisco e non venga messo in imbarazzo. E, chissà, se tutto andrà bene potrebbe arrivare un nuovo panda. Lo zoo nazionale di Washington sta per rimandare i suoi tre panda giganti in Cina alla fine del periodo di prestito, ma allo stesso tempo ha speso 1,7 milioni di dollari per rinnovare le strutture di accoglienza dedicate alla loro accoglienza. Un accordo per l’invio di nuovi esemplari sarebbe un segnale più importante di altri, vista la grande rilevanza simbolica che in Cina si dà a uno dei propri principali strumenti di soft power.
Nessuno si fa illusioni sul medio-lungo periodo, ma per il momento anche un panda potrebbe aiutare le due potenze a rendere più navigabili le turbolente acque del loro rapporto.