Dove finisce un PaeseIl sistema degli Stati-nazione non può più essere dato per scontato

La visione attuale delle frontiere funziona solo se le nazioni sono immaginate uguali e sovrane. Come sostengono Gracie Mae Bradley e Luke De Norohna nel nuovo saggio “Contro i confini”, una tale presunzione richiede un’amnesia storica sulle politiche di dominio

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Cosa fanno i confini? Nell’interpretazione convenzionale, stabiliscono dove finisce un Paese e dove ne inizia un altro. Sono linee su una carta, permanenti e, all’apparenza, razionali. I confini delineano il territorio di una nazione e fanno da filtro agli spostamenti in entrata e in uscita di persone e di beni. Tengono fuori ciò che è proibito: somme di denaro non dichiarate, animali, specie vegetali invasive, malattie, droghe e, ovviamente, persone non autorizzate.

I ricchi abitanti del Nord globale attraversano le frontiere con relativa facilità, salvo il breve fastidio del controllo via scanner dei bagagli e del passaporto, prima del caldo abbraccio con la famiglia lontana e del languore delle vacanze. I viaggiatori rispettosi della legge accettano di buon grado le perquisizioni personali e la scansione a raggi x perché ritengono di non avere nulla da nascondere. E, a dirla tutta, perché hanno un desiderio condiviso di controllo, ordine e sicurezza.

È tale bisogno di controllo e sicurezza a definire le politiche sull’immigrazione, e quindi i titoli sui giornali e i discorsi politici contro i pericoli di un’immigrazione incontrollata. Ma a quanto pare questi confini vengono violati di continuo. Da qui le metafore liquide – “diluvio”, “ondate” o “marea” di migranti – superate soltanto dall’espressione, barbarizzante, “orda”. Gli immigrati vengono di solito messi a fuoco come un assortimento delle loro caratteristiche più minacciose, e il loro arrivo e la loro distribuzione sul territorio – troppi, troppo velocemente e del tipo sbagliato – sono visti soltanto come un rischio, che porta con sé insicurezza e declino di una nazione. 

In un contesto simile, i governi sembrano costretti a impegnare risorse sempre maggiori e tecnologie sempre più sofisticate per rafforzare i propri confini. Il recente aumento di governi di destra è stato accompagnato dal proliferare di muri, reticolati, barriere galleggianti, droni destinati alla sorveglianza dei migranti che attraversano deserti e oceani, respingimenti ai confini dell’Europa e valutazione delle richieste di asilo attraverso campi di detenzione offshore. L’intensificarsi di una politica di frontiera violenta e spettacolarizzata è intimamente connesso all’ascesa di governi razzisti e nazionalisti propria dell’attuale momento storico.

Ma non si tratta di un problema della sola destra. Da tutto lo spettro politico si alzano voci che affermano la ragionelezza e la necessità delle frontiere. Molti partiti e diversi sindacati ritengono che i confini proteggano la classe lavoratrice dall’abbassamento dei salari causati da un surplus di lavoro migrante, che evitino di sovraccaricare l’edilizia pubblica e i servizi al cittadino e preservino lo “stile di vita” e la “cultura nazionale” delle società meta di immigrazione. 

Si ritiene, inoltre, che le frontiere servano da contrasto al traffico di esseri umani e a quello a scopo sessuale, oltre a evitare che i talenti migliori abbandonino i Paesi più poveri. In tutte queste narrazioni, le persone in movimento vengono ridotte a numeri, unità di lavoro, minacce razionalizzate, vittime disperate e categorie legali. La loro umanità viene cancellata e i “fattori di spinta” (pushing factors) che guidano la loro decisione di migrare rimangono sullo sfondo: una sorta di miasma fatto di guerre, persecuzioni e collasso ecologico completamente slegato dagli atti e dalle storie dei Paesi del Nord globale.

Parte del problema è che il sistema degli Stati-nazione viene semplicemente dato per scontato, come se i Paesi e le ineguaglianze fossero naturali e permanenti. La cittadinanza – il sistema politico-legale che assegna gli individui agli Stati – non viene messa in discussione. E non solo: la cittadinanza è vista come un bene universale, segno di inclusione politica e soggettività, e si presuppone che ciascun individuo sia un cittadino a “casa propria”, lì dove ha legami culturali e sociali radicati, un luogo a cui, quindi, “appartiene”. 

In un simile contesto, il controllo dell’immigrazione è percepito come mirato esclusivamente all’applicazione di coerenti distinzioni legali e spaziali tra le varie popolazioni nazionali, tramite meccanismi burocratici quali visti, passaporti, controlli alle frontiere e accordi tra gli Stati. I confini tra gli Stati-nazione sono considerati vitali per la democrazia: delimitano il demos. Per sostenere una simile visione delle frontiere, tutti gli Stati-nazione devono essere immaginati come formalmente uguali e sovrani. Ma una tale presunzione richiede un’amnesia storica per quel che riguarda il colonialismo, e una volontà precisa di non tener conto delle attuali relazioni di dominio economico.

Ovviamente le cittadinanze non sono tutte uguali: i cittadini svedesi, neozelandesi o statunitensi hanno maggiori opportunità di una vita migliore e una ben diversa libertà di movimento rispetto ai cittadini del Bangladesh, della Repubblica Democratica del Congo o del Kirghizistan. Dunque, il controllo dell’immigrazione non si limita a dividere il mondo, ma rafforza distinzioni di spazi e diritti tra popolazioni nazionali estremamente ineguali.

Da “Contro i confini” di Gracie Mae Bradley e Luke De Norohna, Add editore, 208 pagine, 17,10 euro.

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