LampedusattanL’inaspettato (e ingestibile) flusso di migranti a New York

L’America si sta accorgendo che non potrà più gestire l’immigrazione con il contagocce delle proprie esigenze congiunturali ma dovrà rendersi conto di essere al centro di un flusso migratorio globale e inarrestabile

LaPresse

Leggere sul New York Times del 28 settembre il reportage di quattro giornalisti di punta sull’esplosione dell’immigrazione per le strade di Manhattan e di Queens fa una certa sensazione. Per noi italiani, l’America è la terra della speranza: nessuno ci può cancellare dalla testa Ellis Island, l’idea che gli Stati Uniti nascano sul celebre melting pot, le lotterie per la Green Card. Abbiamo la percezione di un sistema ordinato ed efficiente sul quale gli Stati Uniti hanno costruito la propria ideologia e il proprio mito. Oggi tutto sembra all’improvviso cambiare: l’inchiesta del Times descrive New York come fosse Lampedusa.

I numeri dell’immigrazione irregolare, proveniente soprattutto dal Venezuela e dal Centro America sono impressionanti. Dalla scorsa primavera si sono registrati nella sola città di New York centoventicinquemila nuovi arrivi di migranti richiedenti asilo. Se si considera che New York ha circa nove milioni di abitanti, il tasso di arrivi è proporzionalmente ben più intenso di quello nelle coste italiane dove dall’Africa nell’ultimo anno sono arrivati cenotrentanovemila disperati su una popolazione di circa cinquantotto milioni.

L’immigrazione è ormai un fenomeno che si vede. I migranti sono arrivati in zona Ztl, a Manhattan. Il simbolo della “invasione” è il Roosevelt Hotel, destinato dalla Municipalità ad accogliere i senza tetto: davanti all’albergo i buoni cittadini e volontari distribuiscono vestiario e bevande calde. Ma non è così dovunque. A Queens, dove i migranti stanno assiepati nelle mille tende del Creedmoor Psychiatric Center a Floral Park,  i cittadini – tra i quali molti immigrati di vecchia generazione – stanno vivacemente protestando. «Non li vogliamo, non sappiamo se sono criminali», ha dichiarato al New York Times il signor Singh, arrivato dall’India negli Anni Ottanta.

Che la città-guida delle tendenze del mondo – dove il trentasette per cento dei residenti è nato all’estero e ci vivono seicento mila sans-papiers – entri in crisi per l’immigrazione irregolare fa riflettere. Eppure è così: il sindaco Adams nei giorni scorsi ha detto di aver già stanziato cinque miliardi di dollari per l’emergenza e ha chiesto aiuto al governo federale. Il costo totale è stimato in dodici miliardi nei prossimi cinque anni. «Questo problema distruggerà New York», ha ammonito il sindaco democratico, generando l’ira delle organizzazioni pro immigrazione e di gran parte del Consiglio Comunale. È evidente che anche un polmone di ricchezza e organizzazione civile, da sempre accogliente, come è New York ha ormai l’acqua alla gola.

Anche gli Stati Uniti del resto hanno i propri scafisti e i propri leghisti che soffiano sul fuoco. La valle del Rio Grande, nonostante i provvedimenti degli ultimi anni e il ridicolo muro di Donald Trump è un colabrodo di tunnel e passaggi. Venezuelani e centroamericani in fuga da zone disastrate, transitano senza troppi o problemi oppure scappano dai centri di accoglienza, anche loro dopo aver fatto migliaia di chilometri d’inferno. Si disperdono per il Texas e altri stati del Sud dove i governatori repubblicani li caricano sui pullman e li spediscono nelle città-santuario del Nord governate dai democratici come New York dove c’è addirittura una legge che obbliga a trovare un tetto a tutti.

La crisi di New York può insegnare qualcosa all’Italia? Forse sì. Anche in America, dove c’è una consapevolezza maggiore dell’accoglienza e del valore economico dei migranti, il problema è serio. Se si tratta di aumentare i controlli alle frontiere si trova l’accordo, ma ripensare radicalmente la politica di immigrazione richiede molto coraggio politico.

Il problema di New York e delle altre città santuario è che la legge sull’asilo richiede di attendere centottanta giorni prima di poter avere un permesso di lavoro, obbligando le città a tenere i migranti in centri di accoglienza. Biden ci ha messo una pezza e ha firmato un ordine esecutivo con il quale ha concesso diciotto mesi di status di protezione temporanea a quattrocentosettantaduemila venezuelani. 

Non basterà ma l’America si sta accorgendo che non potrà più gestire l’immigrazione con il contagocce delle proprie esigenze congiunturali ma dovrà rendersi conto di essere al centro di un flusso migratorio globale e inarrestabile, come le grandi migrazioni del III-V secolo verso l’impero romano, certamente non risolvibile con i controlli e i blocchi navali. 

Secondo l’Onu circa duecentottanta milioni di persone nel 2020 vivevano fuori del proprio paese di nascita, cinquantuno negli Stati Uniti e sedici in Germania. Inoltre, anche gli Stati Uniti hanno ormai un problema demografico, che in Italia è un’emergenza. La popolazione diminuisce e invecchia e bisogna avere il coraggio di ripensare radicalmente la politica di immigrazione come sviluppo economico e non di sicurezza e assistenza. Serve qui come in Italia trovare un percorso verso la cittadinanza e integrazione di individui con una fame di vivere, lavorare e fare impresa molto più grande della nostra. 

La migrazione è un meccanismo di selezione spietato per cui chi arriva è forte e intraprendente avendo attraversato ostacoli enormi e vissuto peripezie incredibili. Come riferitomi da un funzionario di ambasciata colombiana, alcuni arrivano da zone della loro giungla dove persino le truppe speciali non ci vanno. Questi potranno rivitalizzare con il loro sangue nuovo le nostre città, pagare le tasse, creare impresa e occupazione. 

In America più della metà delle imprese innovative, incluse le big tech, sono fondate da immigrati e molti studi certificano che la propensione media di un immigrato a fare impresa è doppia rispetto ai nativi. L’America potrà rilanciarsi ancora una volta spalancando le porte a questi nuovi cittadini. E forse anche l’Italia potrà fare la stessa cosa.

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