David Petraeus, già direttore della CIA, è una delle menti più lucide e preparate quando si parla di jihad e Medio Oriente. Nel dialogo con Linkiesta, svolto in collaborazione con Euronews Albania e Thimi Samarxhiu abbiamo affrontato alcune questioni chiave a livello tattico e politico.
Generale Petraeus, come valuta l’andamento delle operazioni militari condotte dal governo israeliano e quale pensa debba essere il fine ultimo dell’operazione “Spada di fuoco”?
Quello a cui stiamo assistendo in questi giorni è la distruzione di Hamas. Le forze militari israeliane nei giorni scorsi hanno preparato il terreno stabilendo le condizioni per un attacco di terra con attacchi aerei, droni ed esecuzioni mirate. Ma la missione di Israele sarà più complessa perché a Gaza dovrà essere bonificata ogni stanza, ogni cantina e ogni ingresso dei tunnel che si estendono per centinaia di chilometri sotto la città di Gaza. È una missione impegnativa perché si deve combattere un nemico che non indossa un’uniforme, che tiene in ostaggio oltre duecento israeliani, che utilizza scudi umani e ha il suo quartier generale sotto un ospedale. Hamas è un gruppo terrorista come lo è Isis. Non si può negoziare, non si possono trovare vie di mezzo: Hamas deve essere distrutto.
Occorre fare i conti col peso delle opinioni pubbliche. Non crede che occorrerebbe un diverso approccio che potesse permeare anche quel segmento esile di palestinesi che non condivide le azioni di Hamas?
Ritengo sarebbe utile se Israele annunciasse il piano post bellico, fornendo una visione alla popolazione di Gaza e a tutti i palestinesi facendo comprendere che un futuro migliore è possibile una volta che Hamas sarà uscito dalle loro vite col ripristino dei servizi di base, la fornitura di assistenza umanitaria, la ricostruzione delle infrastrutture danneggiate. E anche come impedire ad Hamas e alla Jihad islamica di ricostituirsi come Al Qaeda riuscì a fare in Iraq dopo che le nostre forze combattenti se ne andarono tre anni e mezzo dopo l’attacco. Lo Stato Islamico è riuscito a ricostituirsi e, sostanzialmente, a stabilire un califfato nel nord dell’Iraq e nel nord-est della Siria. La storia di questi conflitti ci insegna che il piano militare non basta per vincere contro il terrorismo islamista. In questa fase è essenziale mantenere alto il livello di aiuti umanitari alla popolazione perché il problema di Israele e del mondo libero è Hamas e non la popolazione di Gaza.
È uscito da poco un suo saggio scritto con lo storico inglese Andrew Roberts che si intitola “Conflict. The Evolution of warfare from 1945 to Ukraine”. Affrontate il cambiamento della guerra nel corso del tempo e che idea si è fatto di questo conflitto ibrido nuovo che stiamo vivendo?
Il combattimento urbano è lo scenario più impegnativo che possiamo trovare in un conflitto del genere e da un punto di vista storico non riusciamo a pensare ad alcuna situazione meno agevole di questa. Nonostante nel corso della nostra storia recente siamo riusciti a neutralizzare i terroristi islamisti in molte grandi città in Iraq come a Bassora, Sadr City e Baghdad nessuna di queste missioni può essere paragonata per difficoltà a quello che l’esercito israeliano dovrà affrontare. Ci vorrà del tempo e toccherà capire il grado di supporto che Hamas riceverà dagli altri attori della regione. Useranno tutte le tecniche di guerriglia in loro possesso compresa la disinformazione. Vedremo video di infrastrutture civili devastate, le perdite saranno moltissime ma senza l’eradicazione di Hamas non ci potrà essere un futuro di libertà in quei territori.
Abbiamo parlato altri attori regionali. Che ruolo gioca l’Iran in questo momento ?
L’Iran è il grande alleato dei diversi gruppi jihadisti che sono presenti nell’aerea. Li finanzia, li equipaggia, li addestra e fornisce munizioni. Lo stesso fa con Hezbollah in Libano, che ha un contingente assai più numeroso e dispone di centocinquantamila missili e razzi che potrebbero causare enormi problemi a Israele.
Pensa quindi che Hezbollah potrebbe prendere parte al conflitto?
È una prospettiva che abbiamo valutato molte volte, fin dal 2006 quando ero a capo del comando centrale americano nel Medio Oriente e che ho ripreso mentre ero direttore della CIA. Non credo che Hezbollah voglia causare questo tipo di danno e distruzione su stesso, anche se potrebbe mettere in difficoltà i sistemi di difesa israeliani se iniziasse un lancio massiccio e consecutivo di missili verso i territori israeliani. Ma la guerra può estendersi a macchie, basti pensare alle milizie sciite sostenute dall’Iran in Iraq che hanno effettuato attacchi contro le basi statunitensi. Per questo motivo gli Stati Uniti hanno risposto con attacchi mirati sulle basi. Vorrei ricordare anche che l’Iran sostiene gli Houthi nello Yemen, che hanno lanciato missili da crociera verso Israele che sono stati intercettati dalla difesa aerea statunitense nel Mar Rosso. E, naturalmente, questo è il motivo per cui gli Stati Uniti hanno ora due intere task force di portaerei: una nel Mediterraneo orientale, l’altra che probabilmente si sposterà fuori dal Golfo.
L’Iran tuttavia smentisce di aver sostenuto Hamas negli attacchi del 7 ottobre. Può entrare in questo conflitto?
L’Iran ha aumentato la propria capacità offensiva incrementando le difese aeree e la balistica dei suoi missili. Potrebbe causare problemi ma non penso che Teheran voglia intestarsi uno scontro diretto con gli Stati Uniti preferisce una guerra per procura come sta facendo con Gaza, in Libano, in Iraq, in Siria e nello Yemen.
Il 7 ottobre ha forse segnato il mito dell’infallibilità del Mossad e dello Shin Bet. Che idea si è fatto della debacle israeliana?
È stato il risultato di una serie di fattori. Le fonti e i metodi normali hanno fallito, la disinformazione di Hamas ha giocato un ruolo centrale facendo credere agli israeliani che non ci fosse nulla in preparazione. In questo tempo di attesa Hamas ha realizzato un piano creativo e sviluppato che ha colpito la vulnerabilità dell’esercito israeliano. Il 7 ottobre c’era una ridotta prontezza delle forze militari israeliane per i congedi per le festività religiose, l’attenzione era spostata sulla Cisgiordania e sul fronte interno israeliano. Hamas ha saputo eludere la videosorveglianza israeliana sul confine, si è concentrata su bersagli inediti come i kibbutz. È chiaramente un fallimento sia da parte delle agenzie di intelligence che da parte dei militari in termini di prontezza a rispondere che penso porterà a delle conseguenze future.
A suo avviso, proprio perché Hamas non si batte solo nel campo militare, cosa può fare l’Occidente per bloccare il flusso di denaro di questa organizzazione terrorista che passano per l’Europa?
Nel corso degli anni abbiamo creato task force di analisi forense finanziaria che hanno identificato flussi di denaro verso vari gruppi estremisti. In alcuni casi sono stati in grado di interdire o impedire che raggiungessero i gruppi jihadisti in altri casi l’individuazione è più difficile perché utilizzano i metodi delle collette umanitarie, dell’hawala o altri mezzi che eludono le maglie del controllo. Ma non è impossibile fermare l’afflusso di denaro ad Hamas occorre però incrementare la cooperazione tra le intelligence dei paesi occidentali proprio come avviene per evitare che l’Iran aumenti il proprio arsenale. Questa è una problematiche che l’Europa deve affrontare come priorità perché ne va della sua sicurezza.