Odissea monasticaL’incredibile storia dell’isola di San Brendano

Un saggio del Mulino ricostruisce l’avventurosa ricerca in età medievale nell’Oceano che era il luogo del possibile e dell’impossibile. Le Isole Fortunate, l’Ultima Thule, Antilia sono posti simbolici e fantastici che per secoli hanno attratto gli uomini animati dal desiderio di dare forma alla propria immaginazione

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Inizia così uno dei capolavori della letteratura ibernica: la Navigatio sancti Brendani abbatis. Un’opera in prosa latina, tràdita da numerosi manoscritti a partire dal X secolo, tradotta in lingue diverse, in cui lo spazio geografico assume, sovente, un orizzonte onirico, caratterizzato da potenti visioni immaginifiche, testimoniando il complesso rapporto intercorrente tra le genti d’Irlanda – terra non romanizzata, dove il patrimonio culturale celtico si è mantenuto più a lungo inalterato – e l’ambiente oceanico, costellato d’isole, scogli affioranti e scogliere impervie.

L’anonimo autore si diffonde sulle peripezie dell’abate Brendano (o Brandano), forma latinizzata del gaelico Brénnain, imbarcatosi con alcuni discepoli su un piccolo legno alla ricerca della «terra repromissionis sanctorum»: luogo di delizie, temuto e desiderato, riservato da Dio ai giusti per gli ultimi tempi; luogo immaginato al di là del mare, in direzione del tramonto. Ch’è, al contempo, tramonto della vita. Meta finale d’un pellegrinaggio condotto attraverso isole meravigliose, condito d’elementi fantastici: dall’incontro con alcune creature mostruose – l’enorme pesce scambiato per isola – all’avvistamento di alberi altissimi, alla navigazione in acque trasparenti, da cui si ergono colonne di cristallo limpidissimo (forse, un riferimento a Rockall, un tempo un’isola – oggi, un semplice scoglio situato a nord-ovest dell’Irlanda che si erge squadrato sull’acqua). Elementi che hanno la funzione di mostrare la durezza del compito e di sottolineare lo stupore per il creato. […]

Il rapporto tra la Navigatio e la costruzione d’un isolario fantastico è, dunque, sostanziale. Le descrizioni, quanto mai vivide, hanno lo scopo d’immergere il lettore in un ambiente «altro» eppure familiare. Gli episodi sono molti. Fra i più celebri v’è, senz’altro, quello dell’isola-pesce: tema, questo, tra i più ricorrenti – potremmo dire, da Giona a Pinocchio, passando per Moby Dick – dell’immaginario occidentale, e non solo.

Una delle testimonianze più antiche risale al Physiologus, redatto ad Alessandria d’Egitto, in ambiente gnostico, tra il II e il III secolo d.C., in cui il mostro è chiamato Aspidochelone. È grazie alle sue numerose versioni latine e volgari che la leggenda si diffonderà in tutta Europa; influenzando, ad esempio, un poema anglosassone molto noto, The Whale, in cui il mostro è chiamato Fastitocalon (tale poema ispirerà John R.R. Tolkien, che vi dedicherà ampio spazio nel suo Le avventure di Tom Bombadil). Nella più classica delle tradizioni, Brendano giunge in groppa del pesce senza accorgersene. […]

La leggenda di san Brendano si diffuse in Europa grazie alla diaspora dei monaci irlandesi. Secondo l’ipotesi più accreditata, si sviluppò come testo letterario nel corso del X secolo; a quanto pare, in Lotaringia, benché vi sia chi abbia sostenuto ch’essa venisse trascritta in Irlanda, forse già un secolo addietro. La sua ampia circolazione è testimoniata dagli oltre centoventi manoscritti latini superstiti, oltre che dai numerosi volgarizzamenti in tutte le lingue dell’Europa occidentale, dall’anglo-normanno al catalano, dall’antico provenzale, all’italiano, al norvegese.

Nel corso dei secoli, il testo originario è stato oggetto d’interpolazioni, modifiche e adattamenti, in risposta ai diversi ambienti da cui è stato recepito, nonché dei differenti destinatari che lo hanno ricevuto. Un esempio è offerto dai volgarizzamenti veneto e fiorentino, in cui è dato trovare un’aggiunta significativa alla descrizione dell’isola paradisiaca: un arco sorretto da due statue raffiguranti il papa e l’imperatore, che sembrano «guardarsi l’un l’altro e parlarsi tra di loro». Siamo di fronte a una rappresentazione estranea alla cultura monastica irlandese.

Col passare del tempo, ciò che si verifica è, da un lato, il progressivo ridimensionamento degli elementi precristiani presenti nella leggenda; dall’altro, la trasformazione del racconto da narrazione agiografica a vero e proprio romanzo d’avventura, destinato a soddisfare la curiosità e il gusto per il simbolismo sofisticato delle corti basso-medievali.

Durante il periodo delle scoperte, il racconto si sarebbe trasformato ancora, facendosi guida di navigazione. Tali metamorfosi dicono molto circa l’adattabilità del testo, capace di riflettere l’interesse verso orizzonti sconosciuti. Tale elemento desta particolare attenzione. Strabone, Diodoro Siculo, Plinio il Vecchio, Solino e molti altri avevano sostenuto l’esistenza di terre oceaniche situate a ovest delle isole britanniche: tali cognizioni, mescolatesi a quelle relative alle isole Fortunatae, avrebbero spinto i cartografi tre-quattrocenteschi a tramandare il nome delle «insulae sancti Brendani» identificandole, talvolta, con le Fortunatae, dando avvio a una quête che sarebbe durata sino al XVIII secolo inoltrato.

Di fatto, l’isola o le isole di San Brendano compaiono regolarmente sulle carte nautiche. Che il monaco avesse trovato alcune isole nell’oceano era tenuto per certo. La loro collocazione, tuttavia, muta notevolmente. […] Se il santo aveva trovato qualcosa ciò non poteva essere altro che quell’arcipelago d’isole meravigliose, abitato dai beati, di cui avevano discorso gli antichi, collocato oltre le Colonne d’Ercole, da qualche parte nell’oceano.

Da “L’isola che non c’è. Geografie immaginarie fra Mediterraneo e Atlantico” di Antonio Musarra, Il Mulino, 312 pagine, 29 euro.

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