Pubblichiamo la Lectio Magistralis tenuta da Lawrence Summers, già segretario del Tesoro degli Stati Uniti durante l’amministrazione Clinton, Direttore del National Economic Committee con Obama e rettore di Harvard in occasione del ricevimento del Premio Bancor, istituito nel 2022 dall’Associazione Guido Carli con il patrocinio di Banca Ifis.
Sono incredibilmente onorato e grato di aver ricevuto il Premio Bancor. Mi sono emozionato molto quando ho saputo che la vostra giuria aveva deciso di assegnare il premio a me, dopo che l’anno scorso era stato insignito al mio caro amico Mervyn King. Sono grato per il riconoscimento, ma lo sono ancora di più per il fatto che tutti noi che operiamo in posizioni di responsabilità pubblica nell’area finanziaria non lo facciamo per servire gli interessi dei banchieri, per il bene dei banchieri, né per far funzionare meglio i mercati dei capitali come una sorta di astrazione, ma piuttosto lo facciamo per creare una società migliore e più stabile basata su una maggiore interdipendenza e su scambi che sono inevitabilmente facilitati e sviluppati dalla finanza.
Se mi permettete, vorrei fare un’osservazione più ampia sul momento globale, dove ci sono questioni di immensa importanza che per certi versi potrebbero anche trascendere le sfide della finanza. Per parecchi anni prima del Covid, a partire dalla crisi finanziaria, le preoccupazioni dei macroeconomisti non hanno riguardato un’inflazione eccessiva, ma un’inflazione insufficiente – una questione fondamentale per gli economisti monetari e per i dibattiti sulla politica monetaria.
Era il cosiddetto zero lower bound, ovvero la possibilità di ridurre i tassi d’interesse molto al di sotto dello zero, viste le implicazioni per il sistema bancario e la possibilità di detenere liquidità e il timore che, anche a tassi d’interesse nulli o in qualche modo negativi, l’economia non riuscirebbe a generare una domanda d’investimento sufficiente ad assorbire tutto il risparmio.
È questa l’idea che da tempo preoccupa gli economisti, gli economisti che parlano di «eccesso generale», gli economisti che parlano di sottoconsumo. Una preoccupazione particolarmente pressante per l’economista americano Alvin Hanson, quando parlava della stagnazione secolare alla metà e alla fine degli anni Trenta. Prima della pandemia, ero tra coloro che sostenevano che i problemi si erano spostati in modo significativo dal lato dell’offerta a quello della domanda, e che era importante trovare un modo per produrre più stimoli.
In quel periodo ero piuttosto scettico – a dire il vero molto scettico – sui tassi d’interesse negativi come strumento per produrre più domanda. La mia preoccupazione era che i progetti d’investimento che risultavano attraenti con un tasso d’interesse del meno uno per cento ma non con un tasso d’interesse pari a zero, probabilmente non erano progetti d’investimento molto validi. Il mio timore era che con pagamenti di cedole basse o negative sui prestiti, i mercati avrebbero avuto difficoltà a svolgere la loro funzione principale di garantire l’allocazione del capitale a chi avrebbe saputo sfruttarlo al meglio.
Temevo che tassi d’interesse straordinariamente bassi potessero causare pericolosi aumenti della leva finanziaria e creare bolle speculative. Per questo ritenevo necessario trovare altri modi per stimolare la domanda, riducendo tutti i tipi di ostacoli agli investimenti strutturali, promuovendo gli investimenti pubblici e, in alcuni casi, rafforzando la previdenza sociale o la redistribuzione, affinché le risorse passassero da coloro che hanno una minore propensione alla spesa a chi invece è più propenso a spendere.
Col senno di poi, quello è stato il periodo relativamente breve della stagnazione secolare. Da allora, penso che siano cambiate molte cose, alcune in modo quasi permanente. Perché nessun cambiamento economico è permanente. Con il coronavirus, con la pandemia e i grandi programmi di risposta all’emergenza pandemica, in particolare, ma non solo, negli Stati Uniti, oggi ci troviamo in una situazione molto diversa.
Una situazione in cui i problemi fiscali sono molto più gravi di un tempo, una situazione in cui, con ampi disavanzi, i tassi d’interesse possono allontanarsi sostanzialmente dal limite inferiore dello zero e le economie possono crescere in modo ragionevolmente solido e, anzi, possono far aumentare la domanda nominale abbastanza rapidamente da rendere irraggiungibile l’obiettivo di un’inflazione al due per cento.
Ciò implica sfide fiscali molto diverse e un ambiente di politica monetaria altrettanto diverso. A mio avviso, chi suggerisce l’esistenza di una regola ferrea o di una formula semplice che possa guidare la politica in futuro, non ha vissuto abbastanza a lungo da apprezzare l’importanza di tutte le sorprese e le incognite che possono presentarsi. Non condivido l’opinione di molti, tra cui alcuni amici accademici, secondo cui questo è il momento di abbandonare il target d’inflazione del due per cento.
Io stesso ho avuto forti riserve sulla definizione di obiettivi numerici precisi per l’inflazione, ma dopo che questi target numerici sono stati fissati, dopo che ci si è impegnati per raggiungerli, dopo tutti gli sforzi profusi per conseguirli, abbandonarli semplicemente perché l’impresa per raggiungerli sembra ardua, mi sembra alquanto controproducente in termini di credibilità. Ritengo che a questo punto non sia opportuna una regola ferrea, ma una vigilanza politica volta a garantire la priorità del contenimento delle aspettative inflazionistiche.
Sarebbe fantastico riuscire a raggiungere un atterraggio morbido. Tuttavia, come ho detto più volte – e come dice anche Samuel Johnson dei secondi matrimoni – tutto porta a credere che l’atterraggio morbido rappresenti il trionfo della speranza sulla realtà. Il mio sospetto è che non riusciremo, né negli Stati Uniti né in Europa, a riportare l’inflazione al due per cento o vicina al due per cento in modo duraturo senza accettare un aumento significativo del grado di rallentamento economico.
Vorrei tanto sbagliarmi in questa mia ipotesi, visto il sostanziale deterioramento fiscale negli Stati Uniti, e al contempo non posso parlare con altrettanta certezza dell’Europa. A mio avviso, negli Stati Uniti il mantenimento di un livello di domanda coerente con la stabilità dei prezzi richiederà probabilmente un lungo periodo di tassi d’interesse piuttosto elevati rispetto alle stime prevalenti di tassi d’interesse neutrali.
Non invidio i banchieri centrali di oggi per le sfide che li attendono. Andrà a beneficio di tutti se riusciranno ad agire non in un’ottica di convenienza a breve termine, né per ridurre al minimo le ripercussioni dolorose e la dislocazione, bensì per mantenere l’ampio senso di impegno verso la stabilità dei prezzi che è stato il fulcro di tutti i successi economici dell’ultima generazione.
Credo che nei prossimi anni le questioni di politica fiscale dovranno svolgere un ruolo più rilevante che in passato. Sono più preoccupato per la situazione fiscale degli Stati Uniti a medio e lungo termine di quanto lo sia stato nei quaranta anni in cui mi sono occupato di politica macroeconomica. Considerate che le ultime stime del Congressional Budget Office sulla situazione fiscale negli Stati Uniti indicano un deficit del 7,3 per cento circa.
Tra dieci anni, questi calcoli presuppongono che il tasso d’interesse dei buoni del Tesoro si aggiri attorno al due per cento, il che mi sembra improbabile. Questi calcoli presuppongono che la spesa per la difesa nazionale in percentuale del PIL diminuisca in modo significativo, il che mi sembra improbabile. Questi calcoli presuppongono che tutti i tagli fiscali di Trump vengano abrogati, il che mi sembra improbabile.
Questi calcoli presuppongono che le recenti ammanchi sul versante delle entrate non si protraggano in futuro, il che mi sembra improbabile. Questi calcoli presuppongono che non ci saranno nuovi finanziamenti per le iniziative di spesa, il che mi sembra improbabile. Se si tiene conto di tutti questi fattori, si può prevedere un raddoppio del deficit, un disavanzo di bilancio a due cifre che, a mio avviso, è una prospettiva tutt’altro che allettante per l’economia più ricca e prospera del mondo.
Le conseguenze sui tassi d’interesse rischiano di innescare un circolo vizioso di tassi più alti, debiti più alti e tassi ancora più alti negli Stati Uniti. Si rischia di inibire la formazione di capitale a livello globale, in particolare il flusso di capitali dai paesi più ricchi a quelli in via di sviluppo. Si rischia di compromettere la stabilità e la complessità finanziaria, poiché i muri di scadenza andrebbero rinnovati a tassi d’interesse molto più elevati, sia nei mercati dei mutui che in quelli dei prestiti a leva.
Per molti paesi, la sfida della gestione politica si farebbe più ardua. Il timore è che ci siano consistenti deflussi di capitale a fronte di tassi d’interesse statunitensi troppo alti. Ci sarà un meno e questo è l’aspetto più importante per qualsiasi conversazione sul bilancio e sui deficit di bilancio. È un po’ come il prestito per l’acquisto di un’auto: non è un’alternativa al guadagnare di più o al tagliare altre spese per una famiglia, ma semplicemente un modo per distribuire questi costi nel tempo, anche se a causa degli interessi aumenta la loro entità totale.
Lo stesso vale per il governo. L’indebitamento non è un modo per finanziare la spesa. È un modo per rinviare il finanziamento della spesa. È un modo per rinviare l’aumento delle tasse o per rinviare altri tagli alla spesa, anche se l’entità complessiva lievita. Pertanto, sia che si tratti di contenere l’inflazione nel breve periodo o di mantenere la stabilità finanziaria nel medio periodo o di garantire livelli adeguati di investimenti e di crescita nel lungo periodo o di mantenere un sistema globale efficiente, credo sia necessario affrontare le preoccupazioni relative all’indebitamento pubblico negli Stati Uniti.
E se me lo consentite, pensando all’Europa, in nessun altro luogo questo aspetto è più urgente che in Italia.
Parlo di queste dinamiche macroeconomiche, di finanza, di mercati obbligazionari, di disoccupazione e inflazione non tanto perché occupano le prime pagine dei giornali della capitale del mio paese, o qui a Roma, o nelle capitali del mondo. Sollevo queste questioni perché credo che oggi siamo sempre più vicini a quello che può essere ragionevolmente definito «un asse del male».
Le sfumature della strategia nei confronti dell’Ucraina possono essere discusse e dibattute da studiosi ed esperti politici più e più volte, in diverse generazioni. Le complessità del Medio Oriente sono pressoché infinite.
Non ho certo la presunzione di comprendere nel dettaglio le molteplici questioni in gioco negli accordi di sicurezza asiatici, ma una cosa la so: una finanza sostenibile dipende da economie sostenibili. E la sostenibilità dell’economia dipende da un senso di continuità, da un senso della norma, da un senso di stabilità e da un senso di sicurezza. E se si permette alle nazioni di invadere impunemente altre nazioni, se si permette ai terroristi sostenuti dai governi di sfogarsi su civili innocenti senza reagire, se si permette che le minacce di distruggere gli accordi esistenti rimangano senza risposta, il mondo diventerà un posto molto più misero e meno prospero.
Ecco perché tutti noi che ci occupiamo di temi finanziari abbiamo un grande interesse per le decisioni che il mondo sta prendendo in un momento così importante. Ci talmente tanti punti di inflessione nella storia. Momenti di massima malleabilità. Uno di questi è stato il periodo successivo alla Prima Guerra Mondiale. E le sue decisioni finanziarie. Decisioni finanziarie per imporre risarcimenti post-bellici. Decisioni finanziarie per non affrontare un debito insostenibile.
Decisioni finanziarie per limitare la spesa difensiva, decisioni finanziarie per sostenere il protezionismo. Queste decisioni sono state prese con conseguenze catastrofiche. Al punto che tra non molto gli storici inizieranno a parlare di un mondo in guerra con una tregua di diciannove anni. Dopo il 1980, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il mondo si è mostrato in modo molto più ampio. E la finanza e l’integrazione economica sono stati elementi importanti di questa scelta.
L’istituzione del mercato unico in Europa, che ha riunito paesi che avevano combattuto guerre tra loro quasi ogni mezzo secolo o addirittura per un millennio. La formazione delle istituzioni gemelle di Bretton Woods, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, la visione di un mondo in cui le nazioni potessero commerciare, impegnarsi, prosperare e vedere che quando una nazione prosperava, anche le altre prosperavano.
La conseguenza di questa prosperità è stato un periodo di successo straordinario. L’umanità non ha mai assistito a questo tipo di progressi nel migliorare la vita di così tante persone con così poca guerra, come è avvenuto negli ultimi settantotto anni. Un terzo punto di inflessione, forse meno drammatico, ma ugualmente di enorme importanza è avvenuto nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino. Da allora abbiamo visto accadere cose incredibili, straordinarie e positive. Nessuno potrebbe metterlo in dubbio. Nell’ottobre del 2023 potrei dire che la storia si è conclusa di nuovo. C’è una schiera di forze che sostengono l’ordine e la civiltà, e ci sono quelle sempre più unite che vi si oppongono.
Pertanto, le scelte che tutti noi facciamo, le istituzioni che formiamo, i debiti che contraiamo o non contraiamo, il modo in cui allochiamo o meno le risorse non sono mai stati così importanti. Sono quindi profondamente grato a tutti voi per questo premio, ma ancor più per ciò che questa istituzione fa per promuovere una riflessione attenta e disciplinata su questioni che non potrebbero essere più profonde e rilevanti di così.