Viaggiatore nel tempoL’incredibile evoluzione artistica di El Greco

Una mostra a Palazzo Reale, a Milano, presenta al pubblico quarantadue tele di Domínikos Theotokópoulos, fino all’11 febbraio. Un percorso espositivo che si sviluppa in parallelo alla biografia del pittore

Il Trittico di Modena | Wikimedia Commons

È stato il sommo protagonista del manierismo spagnolo, si sentiva un po’ italiano, per via delle esperienze determinanti nella sua formazione artistica, lo chiamavano El Greco, perché era originario di Creta, ma probabilmente veniva da un altro pianeta. Da un altro luogo, sicuramente da un altro tempo. Come il Doc di “Ritorno al futuro”, al volante della sua DeLorean.

Domínikos Theotokópoulos era nato a Candia (come si chiamava la capitale dell’isola in epoca veneziana), pare nel 1541 – alla datazione si giunge per via congetturale, di un viaggiatore nel tempo non è possibile sapere di più. La sua DeLorean era la tavolozza da cui ha estratto le anticipazioni di quel che sarebbe stata l’arte avvenire, del Novecento di Picasso, Giacometti, Schiele, Kokoschka, Bacon, Freud, anche Chagall, e chissà di quanti altri secoli ancora. È quanto si può constatare nella magnifica mostra “El Greco” (sottotitolo, un po’ ascitizio, “Un pittore nel labirinto”) curata da Juan Antonio García Castro, Palma Martínez-Burgos García e Thomas Clement Salomon e allestita nel Palazzo Reale di Milano fino all’11 febbraio: quarantadue tele – alcune dagli Stati Uniti, molte da chiese di Toledo di problematica fruibilità – in dialogo con le opere dei maestri a cui si ricollegava, lungo un percorso che si sviluppa in parallelo alla biografia e all’evoluzione artistica dell’autore.

Il viaggio comincia dal passato, ossia dalla temperie bizantina della natìa Creta dove l’artista emerge ancora giovane come affermato pittore di icone (esposti un paio di esemplari della produzione cretese a cavallo tra Quattro e Cinquecento). Ma a lui non basta: quell’universo bidimensionale, astratto e immobile, popolato da figure stagliate sul tradizionale fondo oro privo di temporalità, è una gabbia dai cui limiti formali e tecnici avverte impellente il bisogno di uscire, per approdare a una dimensione più concreta e dinamica, capace di farsi racconto.

Al fine di perfezionarsi nella “maniera latina”, alla (presunta) età di 26 anni Domínikos si sposta in Italia: Venezia, Roma, poi l’Umbria, le Marche, l’Emilia, di nuovo Venezia. Da Tiziano, da Veronese, da Tintoretto, da Jacopo Bassano apprende gli elementi formali della narrazione pittorica, l’uso della prospettiva e degli sfondi architettonici, la tecnica della macchia, gli effetti notturni, la potenza espressiva del colore, la qualità della luce. I primi risultati si vedono subito, nel cosiddetto “Trittico di Modena”, un altarolo realizzato probabilmente per la famiglia veneziana dei Grimani, in un “Battesimo di Cristo”, in una “Adorazione dei Magi”: esplosioni di luce e colore esaltate dall’uso sapiente della velatura. A Mantova ammira gli affreschi di Giulio Romano, a Parma i dipinti del Correggio e del Parmigianino.

Più contrastata l’esperienza romana, ospite del cardinale mecenate Alessandro Farnese. Qui legge le “Vite” di Vasari, studia il “De architectura” di Vitruvio, si affina come pittore-filosofo rinascimentale. Soprattutto si confronta con l’eredità di Michelangelo da poco scomparso, in un misto di attrazione e ripulsa. Ed è forse un giudizio quanto meno avventato sul titanico maestro della Cappella Sistina («un brav’uomo, ma non sapeva dipingere») a costargli la cacciata dalla corte del Farnese. In ogni caso a Roma è poco considerato, è qui che cominciano a chiamarlo semplicemente “el Greco” (il nome che farà suo e userà per firmare i documenti ufficiali), o addirittura, da parte di un dimenticabilissimo collega di nome Pirro Ligorio, “stupido straniero”.

La svolta arriva nel 1577, dopo dieci anni in Italia. È Luis de Castilla, figlio del decano della cattedrale di Toledo, la più importante di Spagna, a informarlo che nei pressi di Madrid il re Filippo II sta ultimando l’apparato decorativo del suo Escorial, dove sicuramente potrà trovare del lavoro. L’impatto con la corte spagnola è però deludente, il sovrano gli preferisce altri artisti, El Greco finisce a Toledo, la prima città in cui, sotto la guida del cardinale Caspar de Quiroga, sono stati messi in pratica i dettami del Concilio di Trento. Nel clima della Controriforma il pittore di fede ortodossa si converte (ma il fatto che si chiamasse Domínikos, un nome latino grecizzato che nella forma greca sarebbe Kiríakos, ha indotto qualcuno a ipotizzare che fin dalla nascita fosse cattolico), diventa un prolifico autore di scene sacre.

Anche a Toledo, però, non tutto fila liscio: spesso le sue opere sono contestate dai committenti, ancora legati ai vecchi canoni, e le rimosteranze danno luogo a diverse cause legali. E tuttavia è proprio nell’orgoglioso isolamento in cui si rinserra, tagliandosi fuori dal confronto con il nuovo ambiente, che l’artista matura la cifra della sua unicità stilistica, e contemporaneamente la consapevolezza della propria personalità autoriale, prendendo l’abitudine di firmare molte opere con il suo nome vero, “Domínikos Theotokópoulos epóiei”, ossia “lo fece”.

I corpi dei personaggi cominciano a allungarsi, le forme diventano sinuose; i colori sono ancora quelli della pittura veneta, ma adesso si fanno acidi, in un accostamento di verde, azzurro, rosso, rosa, giallo, bianco, arancio minio mai visti prima (e per tre secoli e mezzo dopo); le Madonne hanno ancora un volto che ricorda quello delle Madonne di Correggio, ma adesso non sono più classicamente atteggiate come nelle due “Annunciazioni” del periodo italiano, sono figure anoressiche che si protendono tortuose nelle tele sempre più grandi, e dallo sfondo sono scomparse le fughe architettoniche, sostituite da un vorticoso infittirsi di personaggi, di cherubini e di bianche teste angeliche appena accennate, come nell’“Incarnazione” del 1596-1600, dal Thyssen Bornemisza; nell’“Orazione nell’orto” di fine ’500-inizio ’600, dalla parrocchia di Santa Maria la Mayor di Jaén, le scene rappresentate intrecciano piani diversi che conferiscono dinamismo all’insieme, la luce spiove riverberandosi da tutte le parti, dall’angelo, dalle fiaccole, dalla luna e dal suo riflesso sulle nuvole, con effetti di vibrante drammaticità.

El Greco non ha rinnegato le sue radici culturali, ma adesso traduce l’aura mistica sprigionata dalle icone bizantine in un nuovo linguaggio visionario, esemplificato dalla tensione dagli sguardi dei santi spasmodicamente rivolti al cielo. Lo slancio ascensionale informa di sé ogni aspetto della composizione, in un delirante contorcersi e aggrovigliarsi delle figure che esaspera e quasi scompone i volumi. Si sono evocate le ragioni più disparate per rendere conto di queste distorsioni figurative – problemi di vista, follia, malattie veneree. La spiegazione è molto più semplice e insieme vertiginosa: El Greco vedeva ciò che non si vede, vedeva il noumeno, come ha osservato Vittorio Sgarbi in un ispirato intervento alla presentazione della mostra. È come se avesse già conosciuto la fotografia, che a partire dall’Ottocento si è fatta carico della rappresentazione realistica lasciando libero il campo alle sperimentazioni delle avanguardie novecentesche.

La prova più impressionante e emblematica è il gigantesco “Battesimo di Cristo” dall’Hospital de Tavera di Toledo, che racchiude in sé i semi dell’espressionismo di Schiele e del cubismo. «Yo soy El Greco» si firmerà infatti in alcuni casi Picasso, suggestionato da un’opera del cretese vista nello studio parigino di Ignacio Zuluaga, la Visione di san Giovanni, che pare gli abbia ispirato “Les demoiselles d’Avignon” (il cartone che l’artista ricavò nel 1958 dal celeberrimo dipinto, per realizzare un arazzo, è stato esposto nell’ultima grande mostra italiana del Greco, curata otto anni fa a Treviso da Lionello Puppi e Serena Baccaglini).

Ma con il “Battesimo di Cristo”, iniziato nel 1608 e lasciato incompiuto, siamo agli sgoccioli dell’avventura umana dell’artista. Che negli ultimi anni, in una serie di ritratti meno noti che la rassegna milanese ha il merito di portare all’attenzione, recupera gli schemi compositivi bizantini – visioni frontali, ieratiche, di santi e di “Cristo che porta la croce”, emergenti da sfondi vuoti, scuri, senza prospettiva. Anche i colori sono diversi, sono sempre i tipici colori del Greco, ma adesso meno squillanti, meno acidi, “normalizzati”. Si direbbe quasi che l’artista, spaventato dalla portata della sua corsa in avanti, tenti un estremo rappel à l’ordre. È questa la tappa finale del suo viaggio?

Invece no. Perché nell’ultima sezione della mostra c’è il “Laocoonte” della National Gallery di Washington, iniziato nel 1610 e terminato in articulo mortis nel 1614. Ispirato al gruppo marmoreo ritrovato a Roma un secolo prima, con quei corpi flessi, plasticamente scomposti mentre si dibattono tra le spire dei serpenti, i volumi nettamente risaltati, il cielo lacerato da nubi abbaglianti, è una spasmodica summa finale. Il viatico che El Greco ha lasciato per i suoi posteri. Prima di ripartire verso il futuro, verso territori che noi ancora non conosciamo, ma lui sì.

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“El Greco. Un pittore nel labirinto”
Milano, Palazzo Reale, dall’11 ottobre 2023 all’11 febbraio 2024
A cura di Juan Antonio García Castro, Palma Martínez-Burgos García e Thomas Clement Salomon
Catalogo Skira
Info palazzorealemilano.it mostraelgreco.it

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