D’accordo che reclamare le dimissioni di un ministro ti mette nei ranghi dell’indignazione democratica che da un anno a questa parte non fa altro, quella che protegge le perfezioni repubblicane nel ricordo dei modelli costituzionali valorosamente presidiati durante il conato dell’affascinante avventura grillin-progressista. E d’accordo che oltretutto non serve a nulla.
Ma che un ministro denunci il carattere “antigovernativo” di una decisione giudiziaria che non gli piace, e se ne venga fuori con l’annuncio di una improrogabile riforma della giustizia che ponga rimedio a quella presunta insubordinazione, ecco, in un Paese decente non meriterebbe richiesta di dimissioni solo perché il responsabile dello sproposito sarebbe già stato indotto a dimettersi.
Intendiamoci. È chiaro che la decisione impugnata via social dal ministro Matteo Salvini, vale a dire il provvedimento con cui un giudice siciliano ha disapplicato, per contrasto con sovraordinate regole costituzionali e comunitarie, alcune norme governative di (mala) gestione dell’immigrazione, può essere condivisa o no. Ma, fermo il diritto di dire tutto quel che si vuole di una sentenza, diciamo che sarebbe il caso di dirne semmai qualcosa sulla scorta di un esame giuridico delle motivazioni che la sorreggono anziché alla luce delle finissime analisi tribunesche propalate dai liberali per San Vittore e dai popolari per l’apartheid.
Quel che invece in nessun caso si può fare – quel che un ministro non potrebbe fare, appunto senza incorrere nel dovere di andarsene – è suggerire, o proprio denunciare, come ha fatto Salvini, che una decisione di giustizia merita censura perché ha l’intenzione o l’effetto di vanificare l’efficienza di un sistema normativo o, peggio, la “volontà” del legislatore del momento. Una decisione giudiziaria è legittima o no, e sta in piedi o no, se fa buon governo della legge da applicare, e l’ordinamento prevede la sede e i modi per intervenire su una decisione che abbia fatto mal governo della legge: ma la sede non è Twitter e i modi non sono i berci di un ministro cui quella decisione è andata di traverso.
Non importa neppure discutere sul fatto che quella decisione abbia fondatamente o no rilevato un difetto di compatibilità delle norme contestate rispetto all’architettura costituzionale ed europea in materia: potrebbe anche essere infondatissimo, quel rilievo di incompatibilità. Ma che un ministro lo censuri facendo appello a non si capisce quale preminenza degli intendimenti di governo è tecnicamente e formalmente eversivo, tanto più quando minaccia di farne piazza pulita con una riforma (quale, di grazia?) che, a seguire il ragionamento, dovrebbe comandare il giudice a un procedimento opposto: e cioè a disapplicare la Costituzione e la normativa europea quando si imbatte in un decreto che contravviene all’una e all’altra.
Inutile dire che l’opposizione è altrimenti e altrove affaccendata: questo orpello piccolo borghese, lo Stato di diritto, è recessivo di fronte alle grandi battaglie contro il conservatorismo di Esselunga.