L’incolpazione collettiva è ingiusta e indebita quando pretende di addebitare ai singoli appartenenti a un gruppo politico, sociale, religioso, eccetera, e per il sol fatto di tale appartenenza, i misfatti commessi da altri appartenenti a quel medesimo gruppo. Ma l’incolpazione collettiva è giusta e dovuta quando i singoli appartenenti a quel gruppo non si fanno carico morale e civile dei crimini commessi dagli appartenenti al proprio gruppo, quando non ne sentono il rimorso “in proprio”, e attribuiscono quei crimini a una responsabilità che non li coinvolge in nessun modo, una responsabilità dalla quale si assolvono per il semplice fatto di non aver avuto nelle mani l’ascia del boia.
Imputare agli italiani in quanto tali la responsabilità delle leggi razziali è ingiusto a un patto: che gli italiani in quanto italiani sentano il peso in proprio, sulla propria coscienza di italiani, di quel crimine. Gli italiani non l’hanno mai fatto: non quelli che festeggiavano le inibitorie e le comminazioni razziste; non quelli che le lasciavano correre voltandosi dall’altra parte; non quelli – anzi tanto meno quelli – che sulla scena dei corpi appesi in Piazza Loreto hanno costruito retoriche e carriere “antifa”, con i cortei che da settant’anni denunciano il pericolo fascista e pervengono in purezza all’adunata dell’altro giorno, quella di «Questa non è una piazza fascista! Fuori i sionisti da Roma!».
Questo succede e può succedere per un solo motivo: perché lo scempio del 1938, che non era una cosa fascista, ma una cosa italiana, non grava sulla coscienza degli italiani. Per questo ne sono colpevoli tutti, per questo è giusto e doveroso incolparli tutti: non perché abbiano commesso tutti quello scempio (questo non succede mai: non ogni turco ha massacrato un armeno), ma perché non se ne fanno carico, perché non sentono che è la “propria” vergogna. E ora si confida che l’imbecille non obietti che c’era la resistenza e che c’erano i partigiani.
Imputare i crimini della soldataglia che tortura e stupra e deporta i bambini durante l’operazione speciale, e fa dei villaggi occupati altrettanti lager, e gode della copertura della propaganda che paga e corrompe per negare lo scempio, imputare tutto questo al popolo cui appartiene il gruppo di belve è indebito a una condizione: e cioè che gli appartenenti a quel popolo sentano su sé stessi, sulla propria dignità e sul proprio onore di esseri umani, la vergogna di quei crimini.
Addebitare ai fedeli di un gruppo confessionale il gesto dell’inquisitore che appiccia il trono di fascine su cui è issata la strega, o l’allestimento della buca per l’adultera da lapidare, è ingiusto nel ricorso di un presupposto: vale a dire se chi si ispira a quella tradizione sente gravare sulla propria individualità, sulla propria posizione nel mondo, sul proprio rapporto con la vita, l’atrocità di quei misfatti.
Ho fatto tre esempi, volutamente disparati, tanto per capirsi. Abbiamo il diritto di non essere incolpati dei crimini “altrui” se abbiamo il coraggio e la forza di farcene carico come crimini nostri.
È la persecuzione del singolo in quando appartenente a un gruppo, è questo che è sempre ingiusto. È questo che occorre impedire sempre ed è questo che occorre sempre condannare quando succede. Ma non è ingiusto pretendere che il gruppo dai cui lombi viene il misfatto sia rappresentato da persone che ne sentano la responsabilità e la denuncino come propria. Perché è in questo, nel denunciarla come propria, che possono essere assolti.