In cerca di curiosità in rete sul cinquantesimo compleanno dell’hip hop spunta subito fuori l’account 50th anniversary of hip hop, che porta alla pagina instagram di un marchio di abbigliamento, parecchio seguito peraltro. È davvero questo ciò che resta di un fenomeno culturale che ha rivoluzionato la scena internazionale a partire dagli anni Settanta? Che ha travolto la musica con il djing e il rap, le arti visive attraverso i graffiti e il ballo con la breakdance, oltre a rappresentare la voce di più generazioni spesso ignorata dai media.
Per fortuna pare di no, uno zoccolo duro del movimento hip hop resiste. Dietro quell’accounti si scopre il lavoro di un collettivo di artisti che, nell’arco di questo 2023 di celebrazioni, ha organizzato concerti, esibizioni e battles (oltre a vendere vestiti). Ma comunque il punto di domanda resta, massiccio come una tag bombolettata su un muro, a farci interrogare su quale sia l’eredità dell’hip hop oggi.
Il Bronx e l’old school
Riavvolgiamo il nastro fino all’estate 1973, quando ai block party del Bronx a New York si ballava sui dischi del dj di origine giamaicana Kool Herc. È a una di queste feste di quartiere, per la precisione l’11 agosto, che per convenzione si fa risalire la nascita del fenomeno hip hop. Chiaramente l’attribuzione è dibattuta e le versioni dei fatti si sprecano. A DJ Kool Herc si deve probabilmente l’uso della tecnica del mixaggio dei breakbeat con doppio giradischi, ma la definizione “hip hop” vienne diffusa solo una manciata di anni più tardi. Il Bronx, abitato per lo più da afro e latino americani, all’epoca era dilaniato da una crisi socio-economica tremenda, controllato da gang e criminalità a ogni angolo. Le cronache narrano che il quartiere andasse letteralmente in fiamme nel decennio 70-80: data la difficoltà a vendere le case, interi palazzi venivano bruciati per permettere ai proprietari di riscattare i soldi delle assicurazioni.
È questo lo scenario urbano che vede nascere le prime forme di hip hop della fase old school. Per intenderci, quella della arcinota prima hit rap “Rapper’s delight ” di Sugarhill Gang, classe 1979, campionata su “Good Times” degli Chic, e di Kurtis Blow con la sua “The Breaks” del 1980. Ma anche di Afrika Bambaataa (in Italia ricordato anche per una curiosa collaborazione con Enzo Avitabile) e la deriva elettronica di “Planet rock”. Peccando di generalizzazione, incaselliamo questo momento come legato al funk e alla disco, al mondo del party, focalizzato sulle sonorità più che sull’aperto impegno dei testi.
La nuova scuola e le altre derive
Con gli anni 80 l’hip hop ramifica sotto la denominazione di new school. In un primo momento molto ruota attorno a figure leggendarie come Run DMC e LL Cool J, ma successivamente la tendenze si muovono a cavallo tra la east e la west coast degli Stati Uniti per arrivare alla Golden age, verso la fine degli 80, un filone eclettico e decisamente mainstream. Tra quelle che hanno fatto scuola, il gansta rap di Tupac, N.W.A. e Notorious B.I.G. ha avuto una diffusione incredibile dovuta anche al fascino dell’estetica legata al mondo criminale e alle vicende di regolamento di conti finite sulle cronache, oltre che sulle felpe di qualsiasi adolescente da Seoul a Lagos.
La nuova scuola coincide con il conscious hip hop, genere politico e sociale che ha radici nei decenni precedenti ed è legato ai movimenti di rivolta dei black americans. Vale la pena ripescare “The message” di Grandmaster Flash and the Furious Five, per posizionarlo come brano spartiacque, con quel suo sbilanciamento dalla parte del testo. È dalla parola che sprigiona la forza dell’hip hop di denuncia, con i Public Enemy a fare da caposcuola per le generazioni successive. Radicali sostenitori delle lotte razziali e oppositori del sistema politico e mediatico (ma contro la violenza), la loro “Fight the Power” fa da colonna sonora al film di culto “Fa’ la cosa giusta” di Spike Lee del 1989.
Gli anni 90 vedono anche l’entrata in scena del rap dei bianchi, con i Beastie Boys prima e successivamente Eminem negli anni 2000. Ma il nuovo millennio porta contaminazioni e mainstream a palate, una prolificazione di sottogeneri, talvolta deliri di onnipotenza e la retorica sessista purtroppo ben nota già dallo scorso secolo. Fino ad arrivare agli anni più recenti, in cui è difficile individuare personaggi all’altezza del passato, salvo alcune brillanti eccezioni (come Kendrick Lamar). Da un po’ di anni dilaga la trap, caratterizzata da distorsioni vocali, cassa profonda e melodie minimali. D’altronde già nel 2006 Nas intitolava il suo ottavo album “Hip Hop is dead ” (ricevendo parecchie critiche dai colleghi).
La via italiana dell’hip hop
Per sapere come sono andate le cose qui da noi, interpelliamo Frankie hi-nrg, pioniere dell’hip hop in Italia. Il suo album “Verba manent” del 1993 è una pietra miliare della nostra golden age. «La via italiana dell’hip hop c’è sempre stata», ci racconta, «pensiamo alla scuola di Napoli. I suoni e le soluzioni liriche della lingua napoletana nobilitano il rap molto più dell’inglese, dai tempi di La famiglia, Polo, Shaone, Clementino, o più di recente Speranza. E anche per quanto riguarda i contenuti, la crisi sociale e il razzismo raccontati dal rap hanno una lunga storia in Italia e non c’è bisogno di essere neri per provare le discriminazioni da ghetto sulla propria pelle».
Poi ci chiediamo se esista ancora il conscious hip hop. Ascoltando quello che passa ultimamente si ha l’impressione che ci sia più incitamento alla violenza che denuncia. «È un’epoca distrattiva che tende a privilegiare musica distrattiva, in coincidenza con il disamoramento dei giovani per la politica» osserva Frankie con amarezza. «I ragazzi oggi sono abituati a misurare le persone in base alle views e non alla qualità e all’originalità del pensiero. Ora si lavora più sull’estetica del contenitore che sulla forza del contenuto, di conseguenza si vuole emulare chi fa più numeri. Certo, anche io scimmiottavo ma per fortuna ai tempi avevo modelli come Run DMC, LL Cool J o Rakim».
Parlando del nuovo tessuto sociale, qualcuno tra i giovani ha ripreso a occuparsi attivamente di temi caldi. Frankie cita i ragazzi del movimento Ultima generazione, che tengono aperto uno spiraglio di attenzione verso la politica. Ma una deriva pericolosa è sotto i nostri occhi: «Alcuni si focalizzano su certi stereotipi, come la glorificazione del criminale. È un problema che riguarda non solo le generazioni con genitori nati in altri Paesi, ma avviene negli strati più pervasi dal disagio in tutte le città di Italia. Purtroppo in molte canzoni si dicono cose agghiaccianti, si parla di violenza e donne picchiate, solo per strappare like. La libertà di espressione è intoccabile ma bisogna assumersi la responsabilità di ciò che si dice perché poi le cose accadono davvero. Le ragazze oggi hanno spesso paura di essere ciò che vogliono, a mostrarsi come sono. Penso che ci vorrebbe un maggiore sforzo autorale sui testi, per andare in controtendenza con il messaggio deleterio dell’accanimento verso i più deboli».
Lina Simons
A proposito di mondo femminile, la nuovissima tendenza dell’hip hop italiano è donna ed è cresciuta e pasciuta in Campania, come dice lei. Nata nel 1998 da madre nigeriana e padre italiano, Lina Simons ha appena debuttato con l’album “P.A.S.”(le lettere del suo nome esteso, Pasqualina), ispirato all’epico “Illmatic” di Nas. Nel 2018, però, Lina ha fatto le valigie per Londra, perché ci racconta che dopo Cerreto Sannita voleva fare l’esperienza di una grande città e di un approccio lavorativo più pratico e meritocratico rispetto a quello italiano.
«Mia madre è cristiana evangelista pentecostale quindi sono venuta su con il gospel. Poi sono passata da Aretha Franklin e Michael Jackson prima di arrivare all’hip hop. Rispetto agli anni Novanta sono cambiati i suoni, le produzioni e i sottogeneri del mumble». Ma anche i contenuti sono diversi, prima si parlava di strada, di ribellione al sistema, e la musica era voce di chi voce non aveva, ci dice Lina con il suo forte accento campano che alterna a espressioni in inglese, come fa nelle sue canzoni in quel mistilinguismo che è ormai cifra del rap italiano multiculturale. «Si è perso il motivo per cui era nato l’hip hop, oggi in Italia è soprattutto usato per flexare (ovvero ostentare ndr), non è più la voce di una comunità. In alcuni casi trovo superfluo parlare di soldi e successo. Ma capita anche a me di vantarmi della strada che ho fatto, perché ci sono state persone che non credevano che potessi fare musica davvero. Insomma, io canto di denuncia sociale e della mia esperienza di nera italiana, ma parlo anche di soldi perché nella mia famiglia non ci sono mai stati».