Chi ha paura di Bernard Lewis? Ma nessuno, ovviamente: non solo perché il grande islamista inglese ha lasciato questa valle di lacrime ormai cinque anni fa, quando di anni stava per compierne la bellezza di centodue, ma soprattutto perché non è mai andato in giro a seminare bombe o a predicare la guerra santa.
“Islamista”, secondo i principali vocabolari della lingua italiana, è infatti in primo luogo, come sostantivo, uno “studioso di islamistica”, e soltanto secondariamente, come sostantivo e aggettivo, “che, chi sostiene, anche in forme rigide, intransigenti e insistite, i principi religiosi o politici dell’islam” (dizionario De Mauro). A questa seconda accezione, attestata dapprincipio sporadicamente nell’uso giornalistico dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso e consacrata per la prima volta nell’edizione 2003 dello Zingarelli, se ne è aggiunta più di recente una terza, in realtà la sua estremizzazione, non ancora registrata e quindi – potremmo dire – ufficiosa, anche se implicitamente assodata: quella che ne fa, a diversi livelli di coinvolgimento, un militante del jihad (jihad è una parola araba maschile, non femminile). Ciò che un eminente storico dell’islam e dei rapporti tra islam e Occidente come Bernard Lewis non era: per questo, se fino a venti-trenta anni fa veniva pacificamente presentato come islamista, oggi – dopo l’11 Settembre, la nascita dell’Isis e il moltiplicarsi delle consimili organizzazioni terroristiche – a scanso di equivoci si preferisce definirlo più genericamente “orientalista” (come il tibetologo Giuseppe Tucci, l’indologo Oscar Botto, lo iamatologo Fosco Maraini…).
Probabilmente la parola “islamista” ha cominciato a circolare (tardivamente) in Italia sulla scia dell’inglese “islamist”, il cui primo uso conosciuto, come ci informa l’Online Etymology Dictionary, risale al 1850 (1840 secondo l’Oxford English Dictionary), quando fungeva da sinonimo di musulmano (“islamism” era infatti attestato fin dal 1747 per indicare “la religione dei musulmani, ossia l’islam”: un significato mantenuto dal nostro “islamismo”), per passare in seguito a designare lo studioso di islamistica e soltanto nel 1962 il “musulmano sunnita rigorosamente fondamentalista”.
Una polisemia potenzialmente spiazzante, di cui sembrava non curarsi Adriano Sofri in un articolo pubblicato sul Foglio nel maggio del 2018 in morte di Bernard Lewis, che curiosamente accostava le due accezioni nella medesima frase riferendosi alla “divergenza” dello studioso scomparso con “certi molto più giovani arabisti e islamisti che si procurarono una svelta fortuna dichiarando già negli anni ’90 priva di futuro l’ondata islamista”. Ma va detto che una certa confusione, con inevitabili riflessi lessicali, investe tutto l’insieme dei nostri punti di vista su una cultura a cui storicamente ci rapportiamo con un misto di diffidenza e superficialità.
Il fraintendimento più comune e grossolano è quello che confonde l’etnia (e la lingua) con la fede religiosa: ci è caduta nientedimeno che la patriota Giorgia Meloni, anche in questo esemplare incarnazione, se non dei pregi, almeno dei difetti del popolo italico. Era il 2018, per la precisione il 9 febbraio, e nel corso di uno squinternato sit-in di protesta a Torino davanti al Museo Egizio, “colpevole” di aver offerto per tre mesi alle coppie di lingua araba la possibilità di entrare pagando un solo biglietto, l’allora leader dell’opposizione affrontò il direttore Christian Greco accusandolo di discriminazione a vantaggio di “una specifica religione”; al che l’interessato, con soave rassegnazione didascalica, replicò informandola che in Egitto vivono anche quindici milioni di cristiani copti – per completezza, potremmo aggiungere che, come non tutti gli arabi sono musulmani, così non tutti i musulmani sono arabi, ma possono essere anche turchi, maghrebini, sub-sahariani, iranici, pakistani, indonesiani… e (accidenti!) perfino italiani.
Ma una piccola confusione esiste anche nell’uso di due termini non del tutto equivalenti come “islamico” e “musulmano”, entrambi sia sostantivo sia aggettivo, ma il primo prevalentemente utilizzato come aggettivo e il secondo come sostantivo. Quando, tre anni fa, un’intervista con Silvia Romano – la cooperante italiana rapita in Kenya nel novembre 2018 e liberata nel maggio 2020 – comparve sulla Stampa con il titolo “Ora sono islamica, è una scelta mia”, il giornale ricevette diverse critiche di cui diede conto nella rubrica del public editor, e nell’edizione online cambiò la parola “islamica” con “musulmana”. Qual era il problema?
Vediamo le origini delle due parole. “Islamico” si forma sull’arabo islàm (da pronunciarsi con l’accento sulla a, non sulla i, come si sente in genere; e, al contrario di come in genere si legge, andrebbe scritto con l’iniziale minuscola, se non altro per coerenza ortografica, visto che con la minuscola si tende ormai a scrivere cristianesimo, ebraismo, buddismo eccetera): islam ossia “sottomissione, abbandono” (sottinteso: alla volontà di Dio), riconducibile alla voce verbale aslama, “si dimise, si arrese, si sottomise”, e connesso con salam, “pace” (la radice comune è slm, che esprime la nozione di salvezza, pacificazione); Soumission si intitola infatti il romanzo-caso letterario di Michel Houellebecq uscito il 7 gennaio 2015, lo stesso giorno dell’attentato alla sede parigina di Charlie Hebdo, in cui si immagina la Francia di un prossimo futuro governata da un presidente islamico.
Anche la parola “musulmano” deriva dall’arabo, da muslimun, o più direttamente dalla variante persiana musliman, forme plurali di muslim, detto della persona che “si sottomette” (ad Allah). È il caso di Silvia Romano, che durante la prigionia si era convertita (sottomettendovisi) all’islam. Ma mentre “musulmano” ha un’implicazione essenzialmente religiosa, nel caso di “islamico” è coinvolta una più generale visione del mondo: usata come aggettivo, la parola identifica ciò che attiene all’islamismo, “inteso non solo come religione ma come sistema politico, sociale e culturale” (vocabolario Treccani) e quindi, usata come sostantivo, chi a questo complesso sistema non solo religioso si conforma.
Sfumature, si dirà. Ma a volte le sfumature possono essere importanti. Perché, se si tiene presente la distinzione, professarsi musulmano è in Italia perfettamente legittimo (“Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano”, articolo 8 della Costituzione), ma dirsi e voler essere compiutamente e coerentemente islamico qualche problema lo può suscitare.