Forse Goya aveva già capito tutto. Quello che due secoli dopo cominciamo dolorosamente a sospettare. Gli orrori della violenza, della superstizione, della stupidità, dell’Inquisizione; il conformismo, le falsità, l’ipocrisia, il male di vivere. Ma non solo.
Anche lui, però, non ci era arrivato subito. Ci sono due Goya, nettamente distinti, Goya 1 e Goya 2. Il primo è quello delle committenze, l’artista ambizioso che si adegua alle esigenze del mercato, si affina nei soggetti tradizionali, insegue e trova il successo; il secondo, quello che a un certo punto si ritrae in sé stesso, mette in dubbio tutto ciò che lo circonda, avvia un processo di radicale ripensamento che investe inevitabilmente il suo modo di fare pittura, segnando il definitivo distacco dai canoni del passato e aprendo l’arte alla modernità.
È quanto si può vedere nella mostra “Goya. La ribellione della ragione” aperta martedì a Milano: l’ennesima prestigiosa rassegna di Palazzo Reale, che ospita in contemporanea El Greco, oltre a Morandi e Basilico; non dello stesso livello, però. Non tanto perché nella settantina di opere mancano i capolavori, da cui i musei spagnoli sono comprensibilmente restii a separarsi, quanto perché la scelta, più che dal progetto espositivo, appare condizionata dalla disponibilità dei prestatori, con superflue ridondanze di certi temi, come i ritratti (belli, bellissimi, ovviamente) o la serie dei “Giochi dei bambini”. Non si è voluto dare un taglio antologico ma ideologico, spiega nel catalogo edito da 24 Ore Cultura il curatore Víctor Nieto Alcaide. E però l’effetto è un po’ quello di un bignamino di concetti critici già digeriti.
Tuttavia anche i bignami servono, e per i visitatori possono essere spunto di riflessione. Nato in Aragona nel 1746 (e morto a Bordeaux nel 1828), Francisco José de Goya y Lucientes aveva faticato non poco a imporsi: le sue (sia pur moderate) deviazioni dai canoni imperanti del classicismo non incontravano il gusto corrente, e soltanto nel 1780, con un’opera realizzata di proposito in perfetto stile accademico, venne ammesso a insegnare nella madrilena Real Academia de Bellas Artes de San Fernando. Era l’inizio di una bruciante carriera che ne avrebbe favorito l’accesso alla corte borbonica, fino all’investitura di Primo Pittore di Camera del re.
All’epoca Goya si dava da fare senza troppi problemi per accontentare le richieste: soggetti facili, per abbellire le residenze della nobiltà e della ricca borghesia nascente. Ritratti, come quelli di Carlo IV e della di lui sposa Maria Luisa di Parma, bozzetti per arazzi con scene di strada, spettacoli, feste popolari: lavori eseguiti con tecnica impeccabile, con magistrale senso dinamico, ma senza sostanzialmente discostarsi dalle convenzioni imperanti.
«Ho ormai stabilito uno stile di vita invidiabile, e se qualcuno vuole qualcosa da me deve venire da me», scriveva nel 1786 in una lettera all’amico Martín Zapater. Ma nell’apparentemente inossidabile appagamento dell’artista “arrivato”, già due anni dopo, in un’altra lettera al medesimo destinatario, emerge un’incrinatura: «Vorrei compiacere tutti affinché si ricordino di me, ma spero al contempo che mi dimentichino per poter vivere più serenamente e realizzare quelle opere di cui sento l’esigenza: ciò che mi manca è il tempo da dedicare alle cose di mio gusto».
La crepa si allarga fino a diventare una rottura netta e definitiva con l’accademismo a partire dagli anni Novanta, in seguito alla frequentazione degli ambienti illuministi spagnoli. A contatto con amici intellettuali come il giurista e letterato Gaspar Melchor de Jovellanos o lo scrittore e drammaturgo Leandro Fernández de Moratín, dai cui ritratti traluce la forte empatia dell’artista, Goya comincia a guardarsi intorno, a considerare criticamente la realtà storica, politica e sociale. È la scoperta dei sottofondi oscuri, plurimi, indicibili, inquietanti celati sotto la superficie chiara delle cose: il presagio artistico di quella “cultura del sospetto” che a cavallo tra Otto e Novecento caratterizzerà la filosofia di Nietzsche come la psicoanalisi freudiana.
Alla trasformazione contribuisce anche la malattia che colpisce il pittore nel 1792, rendendolo progressivamente sordo e determinandolo a rompere con le opere commissionate per concedersi liberamente al gusto della propria immaginazione. Nasce così lo stile più inconfondibilmente goyesco e anticipatore, fatto di pennellate spesse, rapide, frutto di spontaneità (nell’esecuzione, ma non nel concetto che le sottende), che apre la strada all’impressionismo tardo ottocentesco e che nell’attività di docente dell’Accademia viene teorizzato nel rifiuto di ogni tipo di regola imposta agli allievi, a vantaggio della libera felicità creativa. Il colore non è più funzionale alla rappresentazione ma alla resa espressiva: il ritratto di un famoso mendicante cieco di Madrid “El tío Paqueta” (1819-20) potrebbe quasi essere stato dipinto da un artista del gruppo Die Brücke. Altre suggestioni rimandano al simbolismo di Füssli, altre al surrealismo.
E nascono le serie delle incisioni, eccezionalmente affiancate in mostra alle relative matrici su rame appena restaurate. A partire dai “Capricci” (1797-99), in cui – con invenzioni figurative che preparano il terreno alla grande caricatura ottocentesca, e con didascalie di feroce sarcasmo – l’artista, maestro della tecnica, mette alla berlina i vizi di un mondo che altrove era già stato travolto dalla Rivoluzione.
In un’acquaforte, “La famiglia Chinchilla”, si vedono due uomini in camicia di forza, uno (vagamente somigliante a Boris Karloff nel “Frankenstein” cinematografico) con in mano un rosario, l’altro una sciabola (a richiamare i loro ruoli sociali), con le palpebre serrate, le orecchie blindate da grossi lucchetti e le bocche aperte pronte a trangugiare quel che viene loro propinato dal cucchiaio di un terzo personaggio dalle orecchie d’asino e gli occhi bendati. In un’altra, “Non ne saprà di più il discepolo?”, un torvo maestro somaro, allegoria dello stolido autoritarismo pedagogico, insegna a leggere a un somaro alunno spalancandogli un libro su cui compare più volte replicata un’unica lettera, la A, la prima dell’alfabeto, oltre la quale il somarello non saprà andare e la cui ripetizione vocale renderà l’effetto onomatopeico del raglio.
“Il sonno della ragione genera mostri” è la dicitura della celebre incisione nella quale un uomo che si abbandona addormentato sul tavolo (Goya stesso) è sovrastato da una folla di creature teriomorfe svolazzanti. Sono gli incubi che assillano le menti oscurate dall’ignoranza e dai pregiudizi, che l’artista e i suoi amici illuministi vedono prossimi a essere spazzati via dal vento delle novità che spira dalla Francia rivoluzionaria. «Ormai non ho più paura delle streghe, degli spiriti, dei fantasmi, giganti, felloni, malandrini, di chicchessia» scrive nel ’92 al solito Zapater. Ma proprio dalla Francia verrà la cocente delusione.
Con l’occupazione della Spagna da parte dell’armata napoleonica, nel 1808, inizia una sanguinosa guerra d’indipendenza terminata soltanto sei anni dopo con la ritirata dell’invasore. Goya dà voce all’orrore nella serie dei “Disastri della guerra” (1810-14), ed è la prima volta nella storia dell’arte che un conflitto non viene narrato in termini epici, ma con cruda esasperazione visionaria. Sono immagini di fucilazioni (“E non c’è nulla da fare”), di corpi ammassati, ribaltati, smembrati, decapitati, fatti a pezzi, appesi agli alberi (“Un’impresa eroica! Con morti!”), di cui si ricorderà Picasso in “Guernica”, e che trovano un eco, un secolo più tardi, nell’Otto Dix di “Der Krieg”. Come osserva nel catalogo della mostra il direttore di Palazzo Reale Domenico Piraina, citando Malraux, le figure deformate di Goya ricordano quelle di Bosch; con la differenza che il pittore fiammingo portava gli uomini all’inferno, mentre lo spagnolo porta l’inferno nell’uomo.
La giovane Francia figlia della Rivoluzione ha tradito le attese dell’artista, che adesso in una grande tela (di tormentata attribuzione), “Il Colosso”, sembra recuperare lo spirito patriottico dipingendo un essere gigantesco che si erge sul paesaggio e sulle file di spagnoli in rotta mostrando i pugni contro il nemico. Ma non ha importanza chi sono gli invasori e chi i resistenti, Goya tutti ricomprende nella totalizzante tragedia collettiva che li accomuna, simbolo dell’universale insensata (atemporale) violenza che divora il mondo. «E non c’è nulla da fare», come recita la didascalia di un “Disastro”.
«Con o senza ragione» recita un’altra didascalia, e pare la resa dopo la stagione delle illusioni illuministe: nulla può la ragione in tanta catastrofe dell’umano, essa stessa ne è parte e, in parte, causa. È forse questa la presa d’atto a cui l’artista si è dovuto rassegnare nell’ultima fase della sua vita, e che oggi ci investe come un sinistro avvertimento nei giorni in cui il Medio Oriente è in fiamme.
Goya, che ha vissuto per vent’anni a Madrid in una calle chiamata (emblematica ironia della sorte) “del Desengaño”, si ritirerà fuori della capitale, nella cosiddetta Quinta del Sordo, che affrescherà con le più cupe, stravolte, enigmatiche, perturbanti, espressionistiche fantasie partorite dalla sua mente disillusa, le “Pinturas negras” oggi al Prado. In mostra, una delle ultime immagini, della serie “Disparates” (“assurdità”, successiva al 1815) si intitola “Assurdità ridicola”. Si vede un gruppo di persone assise su un grosso ramo spoglio proteso nel vuoto, in attesa, che ascoltano senza sentirle, con sguardi assenti, arresi, le parole verosimilmente vuote di un altro personaggio seduto di spalle: come d’autunno sugli alberi le foglie.
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“Goya. La ribellione della ragione”, a cura di Víctor Nieto Alcaide, dal 31 ottobre al 3 marzo a Milano, Palazzo Reale
Catalogo edito da 24 Ore Cultura
Info palazzorealemilano.it www.mostragoya.it