«Le nostre macchine migliori sono fatte di sole», ha scritto Donna Haraway, «sono tutte leggere e pulite perché non sono altro che segnali, onde elettromagnetiche, una sezione di uno spettro». In un senso superficiale, Haraway si sbaglia, naturalmente; i computer non sono fatti di sole, e non sono dispositivi ottici in uno stretto senso tecnico, in quanto privilegiano valori matematici astratti rispetto alla visualità della luce.
Tuttavia, in un altro senso, Haraway ha colto l’essenza del digitale. I computer sono fatti di sole perché includono cose come cavi in fibra ottica e commutatori a fotoni. Sono fatti di sole anche in senso lato, perché sono costituiti da energia che si muove attraverso la materia. Inoltre, la disciplina della modellazione informatica cerca di simulare il comportamento della luce utilizzando equazioni matematiche, ed è quindi una sorta di “simulatore di luce solare”. In altre parole, i computer usano ancora la luce, anche se ripudiano i dettami della camera oscura.
Per realizzare la simulazione della luce solare, una serie di tecniche rinascimentali è stata importata in blocco nella computer grafica, dalla prospettiva a punto di fuga alla radiosità della luce. Teorici dei media come Friedrich Kittler hanno raccontato le complicate origini della grafica computerizzata, ammettendo le moderne scienze ottiche, ma includendo anche strani antecedenti come il radar, che assegna indirizzi ai punti, e il testo e la letteratura stessa, che fornisce una qualche spiegazione alla verbosità del codice sorgente. (Sebbene non sia ancora stata scritta una vera e propria narrazione storico-artistica sui pregiudizi estetici inerenti alla computer grafica, è sufficiente dire che il computer tende a essere più classico che sperimentale nei suoi presupposti sul modo in cui la luce si muove nello spazio, con molto Jacques-Louis David o M.C. Escher e molto poco Odilon Redon o James Turrell). Di fatto, la storia della computer grafica è in gran parte una storia di rendering, cioè il procedimento di proiezione di uno spazio volumetrico su un rettangolo piatto.
L’astrazione della visione è piuttosto antica, a dire il vero, dalle stravaganti narrazioni del dialogo cosmologico Timeo di Platone allo sviluppo della scienza ottica sotto Keplero, Cartesio, Newton e altri moderni. In letteratura, il discorso indiretto libero ha permesso di astrarre la soggettività da uno specifico testimone umano – James Boswell o il dottor Watson – a una modalità di osservazione libera. (Secondo Pasolini, tale osservazione libera è stata successivamente importata in blocco nel cinema). Il concetto di visione neutrale ha avuto un ruolo anche nello sviluppo dell’empirismo e delle scienze obiettive e, in modo diverso, nelle teorie politiche sulla giustizia cieca e sull’indifferenza delle strutture dello Stato. Il punto di vista è stato a lungo un problema anche in pittura, l’esempio più immediato, se non addirittura un cliché, è il cubismo.
Tuttavia, nessuno di questi approcci scarta completamente l’occhio. Le varie tecniche si limitano a modificare la qualità dell’occhio, consentendogli di essere fluido anziché fisso, oggettivo anziché soggettivo, neutrale anziché determinato. Cosa significherebbe vedere qualcosa in tutti i modi, da tutti i lati e in ogni momento? Non solo astrattamente, non solo oggettivamente, non solo neutralmente, ma effettivamente? Una visualità “etica” sarà il suo giusto appellativo, perché l’etica è quella modalità in cui tutti i punti e le posizioni si dissolvono a favore di un’unica, generica affermazione: “tutto è amore”; o, qui, “non c’è punto di vista”. La fotografia dice che qui c’è un punto di vista, ma la visione computerizzata dice che non c’è nessun punto di vista perché qui ci sono tutti.
Storicamente, ci sono stati due modi fondamentali per ottenere questa visione etica: o attraverso la molteplicità della visione (la via schizofrenica), o attraverso la virtualizzazione della visione (la via gnostica). E se il cinema è una macchina schizofrenica con i suoi tagli, le sue telecamere multiple e il montaggio parallelo, il computer è certamente una macchina gnostica, che promette una conoscenza immediata di tutte le cose in ogni momento e da ogni luogo. C’è dell’ironia in questo, poiché qualsiasi forma d’arte in cui la visione non richiede un punto di vista sperimenterà una nuova libertà di replicare punti e punti di vista all’infinito. La visualità non scompare. Al contrario, la visualità diventa metastabile, apparendo in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento sotto l’egida della “macchina fotografica virtuale”.
Dopo tutto, la visione è solo una variabile per il computer, una variabile come qualsiasi altra. E i tipici rilievi e profili ereditati dal disegno architettonico sono ora intercambiabili come qualsiasi altro tipo di input. Questa libertà sfrenata genera di per sé una forma secondaria di regolarizzazione, in cui l’infinità di visioni possibili si riduce a un breve elenco di visioni comuni. Così l’architettura, l’arte dello spazio e del volume, è anche la professione che più efficacemente ha disciplinato la visione in rilievi, profili e pianta. Ma non è necessario evitare la regolarità per semplice riflesso. L’apparente rigidità del sistema euclideo di coordinate fornisce infatti la struttura necessaria a questa modalità estetica che, come abbiamo detto, non ha punti di vista (perché li ha tutti).
Il risultato non è tanto una meditazione sulla luce quanto un esperimento all’interno dei sistemi mediatici nei quali nulla viene svelato se non l’inedita scoperta che la luce potrebbe non essere affatto rivelatoria. La rivelazione del computer si presenta invece sotto forma di reduplicazione: moltiplica i punti di vista, li distribuisce nello spazio e privilegia l’acquisizione parallela rispetto alla serie diacronica. Il multiplo fotografico è quindi l’inizio di una storia, ma non è affatto una fine soddisfacente. Per meglio comprendere la computazione, dovremo esplorare la molteplicità in altri formati mediali, tra cui il tessile, i giochi, le macchine calcolatrici, gli automi cellulari e altro ancora.