Lettere dal carcere I carteggi di Cospito e Messina Denaro e la giustizia morale della magistratura

Esprimere il desiderio di sovvertire lo Stato, pur essendo un concetto riprovevole, non è illegale e non dovrebbe giustificare un regime carcerario come il 41bis. Così come esprimere sentimenti per un criminale potrebbe essere discutibile, ma non dovrebbe essere un motivo per comminare misure restrittive

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L’altro giorno, durante una trasmissione televisiva, mi è capitato di ricordare quel che scrisse Alfredo Cospito a proposito del 41bis: il sistema di tortura legalizzata che, per impedire a mafiosi e terroristi (a volte in custodia cautelare, e perciò tecnicamente innocenti) di comunicare con l’esterno, finisce per disporre divieti che sarebbero buffi se non fossero tragicamente effettivi: dai minuti d’aria per non concedere troppa letizia al detenuto fino all’inibitoria della musica neomelodica, perché il boss potrebbe ritrarne motivi di rinvigorito orgoglio. 

Cospito scriveva, in una lettera dalla sua prigionia, di ritenere incivile il regime del 41bis, incivile non perché lui vi fosse sottoposto ma per chiunque. In collegamento c’era il noto «garantista nel processo e giustizialista nella pena» Andrea Delmastro Delle Vedove, il legittimo confidente dell’onorevole Giovanni Donzelli, il quale ha creduto di rinfacciarmi che Cospito al 41bis ci doveva restare perché nelle sue lettere scriveva cose sovversive.

Ho ripensato alla cosa l’altro giorno, sulla notizia dell’arresto della figlia dell’amica di Matteo Messina Denaro. Perché ancora una volta è da una lettera (da una «missiva», come si legge in stile carabinieresco nel provvedimento di giustizia) che si pretende di ricavare materia per giustificare una misura di limitazione della libertà personale (sia essa quella più tenue dell’arresto ai domiciliari, sia invece quella più stringente del cosiddetto carcere duro). Dice: lettere di istruzioni a qualcuno per commettere delitti? No, appunto: lettere che (nel caso di Cospito), accanto alla denuncia dell’ingiustizia del 41bis recavano considerazioni e propositi, farneticanti fin che si vuole, sulla necessità di abbattere lo Stato; e lettere che (nel caso della figlia dell’amante del boss) manifestavano trasporto e sentimenti filiali per il latitante (addirittura «venerazione», si apprende).

Due casi diversissimi, ovviamente, ma resi simili dall’occhio inquirente che in modo identico, in un caso e nell’altro, fa lo scrutinio dei vagheggiamenti altrui con la pretesa di raddrizzarne l’orientamento pervertito.

Non si capisce, evidentemente, che il compito della giustizia è un altro: non si capisce che desiderare la sovversione delle istituzioni statali sarà riprovevole ma non è illecito e non giustifica irrigidimenti del regime carcerario; non si capisce che il lasciarsi andare alla manifestazione di simpatia e sensi amorosi per un criminale sarà anche discutibile secondo il criterio altrui, ma non è un delitto e non può essere messo sul conto della persona da arrestare, che magari va arrestata ma non per quel motivo (e se non è quello il motivo per cui l’arrestano, allora non si capisce perché vi si faccia riferimento nel provvedimento di arresto).

Tutto questo per dire cosa? Solo per dire che c’è un sottosegretario alla Giustizia con scarse cognizioni e parecchia disinvoltura e una magistratura che largheggia in indagini valoriali sugli scritti di una donna che vuole bene all’amico mafioso della madre? Sì, solo per dire questo: e solo per dire che nessuno ne ha detto niente.

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