Con l’elezione di Javier Milei a presidente dell’Argentina, il Sudamerica è tornato un tema di attualità. Riuscirà Milei, con le sue radicali riforme, a risollevare un Paese con una povertà dilagante e una inflazione a tre cifre? Anche altri Stati di quell’area versano in condizioni di grande instabilità oppure sono stati oggetto di esperimenti sociali che hanno però portato a esiti catastrofici, come nel caso del Venezuela. I mail del Sudamerica hanno radici lontane. Un libro che aiuta a spiegare questi fallimenti è “Dal buon selvaggio al buon rivoluzionario. Miti e realtà dell’America Latina” di Carlos Rangel, pubblicato di recente da IBL Libri. Proponiamo di seguito un brano della prefazione di Loris Zanatta, tra i maggiori studiosi italiani di storia del Sudamerica.
Il tempo passa per tutti, ma se c’è un autore che porta bene gli anni è Carlos Rangel, se c’è un libro che porta con dignità le rughe è questo: il “buon selvaggio” è sempre di moda, “il buon rivoluzionario” non muore mai. Oggi come nel 1976, quando uscì la prima edizione, l’uno è sempre pronto a travasarsi nell’altro, in America Latina e altrove. La miglior prova? Che il vespaio di polemiche, l’indignata intolleranza che sollevò allora tra i benpensanti del mondo accademico e intellettuale, si ripetono ancor oggi a ogni testo che, foss’anche alla lontana, ne calchi le orme, ne rifletta lo spirito, ne raccolga l’eredità.
Certo, Rangel era più solo che mai: inneggiare alla democrazia liberale, additare gli Stati Uniti a terra di insegnamenti, perorare le virtù del mercato era, nell’America Latina degli anni ’70, come bestemmiare in chiesa. Immagino il suo grado di frustrazione e delusione, impotenza e isolamento. Ma per quanto quell’ottusa e violenta cappa che opprimeva i suoi ideali si sia da allora diradata, c’è ancora. Con buona pace dei tanti che, atteggiandosi a eterne vittime, si credono “contro egemonici” perché invocano la “rivoluzione” e “combattono il capitale”, l’unica corrente ideale che in America Latina vanta tale etichetta è il liberalismo: le ha avute tutte contro! È sempre stato minoritario! Ha dovuto risalire la corrente, piantare radici in un suolo dove l’acqua di cui ha bisogno mancava. Contro egemonico è Carlos Rangel, non certo Ernesto Laclau, Octavio Paz, non certo Eduardo Galeano, Mario Vargas Llosa, non certo Gabriel García Márquez!
Per chi, come me, da trent’anni insegna in un’università italiana, non c’è dubbio: quel che scriveva Rangel, che «essere rivoluzionario in un’università latinoamericana è tanto eretico come essere cattolico in un seminario irlandese», rimane in larga parte vero. Il miracolo del conformismo rivoluzionario si ripete a ogni generazione, puntuale come le tasse, fatale come la morte. I bisnonni credevano nella rivoluzione cubana, i nonni nei sandinisti, i padri in Hugo Chávez, i figli in Evo Morales, i nipoti in Andrés López Obrador. Non sarà un caso, semmai questione di fede: “la rivoluzione è come una religione”, diceva Fidel Castro che se ne intendeva; e la religione è ripetizione, rito, liturgia, dogma. La religione della rivoluzione conserva la sua comunità di credenti, la fede si tramanda e non si estingue.
Rangel aiuta a spiegarlo con coraggiose convinzioni e brillanti intuizioni. La parabola storica dell’America Latina, osservava, è “fallimentare”. Difficile dargli torto: nel 1976 la regione era un cimitero; violenta e povera, iniqua e convulsa, si contorceva quasi per intero sotto il tallone dei militari, sommersa da due decenni di furenti crociate ideologiche. Sviluppo? Poco. Istituzioni? A pezzi. Futuro? Nero. Però fioccavano utopie: tutti agitavano una spada, tutti brandivano una croce, tutti invocavano un Regno di Dio, il loro Regno di Dio. Lo Stato di diritto non importava a nessuno.
Da allora i passi avanti sono stati più di quelli indietro. Ma se accorciamo l’arco temporale, se misuriamo il presente raffrontandolo agli anni ’80 e ’90 dello scorso, alle speranze di quella primavera democratica, i passi indietro sono più di quelli avanti. L’implacabile diagnosi di Rangel, l’amara constatazione del “fallimento storico” dell’America Latina, rimane perciò attuale: rimasta al palo mentre l’Asia decollava, cresce poco e innova meno, combatte la ricchezza più che estirpare la povertà, coltiva l’eguaglianza affondando tutte le navi. Le sue democrazie imbarcano acqua da ogni parte: laddove un tempo si bussava alle porte delle caserme ci si scanna per controllare il potere giudiziario e scriversi Costituzioni su misura. Chi ci riesce, prende tutto il potere e il bottino, chiude la porta e butta via le chiavi. Capita così che mentre speravamo si liberalizzasse Cuba si sono cubanizzate Venezuela e Nicaragua, Argentina e Messico sono di nuovo come già furono i poli del populismo latino, l’asse liberale del Pacifico perde colpi e rischia il crollo. Se poi si pensa che sul fronte opposto s’erge Jair Bolsonaro, siamo fritti: l’involuzione democratica è lampante.
Mentre l’ennesimo treno perduto lascia la stazione, ecco così elevarsi la consueta sinfonia del nazionalismo latino: che la povertà è “virtù”, che l’autarchia è “identità”, che il populismo è “cultura” del “popolo”, che l’inefficienza, il familismo, il clientelismo sono sane resistenze alla tirannia “economicista”, “tecnocratica”, “neoliberale”. Che la “colpa”, va da sé, è dei ricchi e dell’Impero: la teoria della dipendenza, sommersa dai fatti, sopravvive nei cuori. L’epica nazionalista s’ammanta di vittimismo, narcisismo, spiritualismo: no pasará, urla in cagnesco al demoniaco “materialismo”. È sempre la stessa storia: Davide contro Golia, una compiaciuta narrazione del declino, un’autoindulgente esibizione di presunta superiorità morale utile a giustificare il fallimento materiale.