È impressionante la noncuranza con cui generalmente si assiste a ciò che sta montando contro gli ebrei negli Stati Uniti. Le devastazioni delle sinagoghe, l’assedio degli esercizi commerciali e dei ristoranti gestiti da ebrei, la polizia posta a difesa di un gruppo di ebrei costretto a rifugiarsi in una biblioteca di New York, una pluralità di istituti universitari in cui gli studenti ebrei sono sistematicamente minacciati e aggrediti, con i rettori impegnati a contestualizzare la propaganda antisemita neppure inneggiante alla distruzione di Israele (moderatismo accettabile, ormai), ma proprio al genocidio degli ebrei. Pare che tutto questo abbia corso senza che sia percepito che cosa significa anche solo esteticamente, anche solo simbolicamente, il fatto che in quel Paese prendano ad adunarsi le cose che qui portarono all’abisso.
Alberto Savinio scriveva che l’Europa non ha residenza geografica fissa, che lo spirito europeo si accendeva in Grecia, poi passava in Italia e dunque in Francia e in Inghilterra e ancora negli Stati Uniti: «ultima tappa dell’europeismo», scriveva. Fa rabbrividire l’idea che a trasmigrare laggiù, a lambire quel Paese e a contaminarlo sia, ottant’anni dopo, proprio ciò da cui quel Paese ci salvò.
È incredibile che non ci si accorga con la dovuta gravità della portata esemplare, terrificante, dello slalom in cui si esercitano tre plenipotenziari accademici per non rispondere alla domanda semplice, e cioè se ritengano l’inno al genocidio degli ebrei contrario o conforme ai principi su cui si reggono le università che presiedono. Dovrebbe far trasecolare, e invece passa come se nulla fosse, la notizia che la più disinibita in quel trio è confermata al suo posto in nome del libero pensiero. E non solo: perché in favore di questa Claudine Gay – la più scientifica nella spiegazione secondo cui la propaganda antisemita può semmai ritenersi impropria quando si realizza nella violenza fisica sull’ebreo, ma certamente non quando si limita all’istigazione – si è raccolta in modo solerte e praticamente unanime tutta Harvard.
Il fatto che le manifestazioni di antisemitismo negli Stati Uniti, come peraltro altrove, si moltiplichino sulla scorta dell’indignazione per le vittime del conflitto in corso non attenua e semmai aggrava il pericolo costituito da quei pregiudizi dilaganti, e rende più strepitosa anziché assolvere l’ingiustizia che essi rappresentano.
Perché è evidente – o almeno dovrebbe esserlo – che la caccia allo studente ebreo, la sassata al ragazzino con la kippah, il pestaggio del rabbino assumono un aspetto anche più ripugnante se contestualizzati alla luce delle responsabilità israeliane per i civili uccisi. È cioè evidente – o almeno, ancora, dovrebbe esserlo – che l’indulgenza storicizzante in favore del manipolo che perlustra il campus alla ricerca degli ebrei da rastrellare ha esattamente lo stesso segno, la stessa capacità offensiva della pensosa analisi sul carattere semplicemente reattivo, o addirittura comprensibilmente difensivo, del pogrom del 7 ottobre.
Il repulisti dei volantini con l’immagine degli ostaggi – altro gesto di oscena simbolicità non esclusivamente statunitense, come sappiamo, ma lì tanto più trionfale e sistematico – è motivato dalla pretesa e adempie allo scopo di negare agli ebrei in quanto ebrei di chiedere memoria e protezione: e nuovamente dovrebbe indignare – il che non succede – proprio per le ragioni poste a giustificazione di quello sfregio, vale a dire la condanna della reazione israeliana e la deplorazione per le tante vittime che essa sta producendo. Ma è in quel modo, con l’ebreo adibito in quanto ebreo a tirassegno e a sputacchiera, è in quel modo che si difende la causa palestinese?
Chi ha a cuore la causa palestinese – e tutti dovrebbero averla a cuore, se significa il diritto dei palestinesi di vivere in libertà e in sicurezza – potrebbe utilmente meditare su quanto poco essa sia difesa nel clima da Kristallnacht che non pervade qualche sottoscala di periferia pieno di teste rasate, ma le piazze di mezzo mondo e ora, appunto, anche le strade e le istituzioni scolastiche del Paese in cui gli ebrei potevano sentirsi, e ora non più, relativamente sicuri.
Che questo avvenisse un tempo – per fortuna non là, non negli Stati Uniti – siccome gli ebrei erano infidi e usurai; e che ora avvenga – disgraziatamente anche là – perché gli ebrei in quanto ebrei costituiscono la razza usurpatrice della terra altrui; che qui e là non si identifichino i tratti perfettamente identitari dei due fenomeni, liquidati l’uno come la vicenda passata e irripetibile e l’altro come il poco rilevante sfiato di una rabbia abbastanza giustificabile, ecco, tutto questo dimostra in modo plateale quanto fosse e continui a essere precaria e molto poco promettente la retorica del «Mai più».Un modo di dire e niente più, quando le cose che non dovevano essere mai più si presentano ancora: e ancora nella diffusa riluttanza a riconoscerle per quel che sono.