Primo luglio 2022. Tre navi della marina russa passano al largo della contea di Hualien, costa orientale di Taiwan. Un evento pressoché inedito. Poco più di quattro mesi prima è scattata l’invasione dell’Ucraina e la Russia cerca aiuto dalla Cina. Poche settimane prima c’è stata una telefonata che secondo alcune indiscrezioni sarebbe stata «tesa» tra Xi Jinping e Vladimir Putin e la diplomazia di Pechino sta lavorando a una telefonata tra il presidente cinese e Joe Biden. «I russi hanno esagerato stavolta», dichiara in quei giorni Zhou Chenming, ricercatore presso l’Istituto di Scienza e Tecnologia Militare Yuan Wang, con sede a Pechino. Quelle per il Partito comunista sono acque cinesi. E «la Cina non vuole che gli americani si avvicinino, né vuole che lo facciano i russi», dice Zhou al South China Morning Post. Quantomeno senza un via libera, come parrebbe sia avvenuto quella volta.
Ventuno gennaio 2024. La Kcna, l’agenzia di stampa nordcoreana, annuncia la prossima visita di Putin a Pyongyang. Dopo aver ricevuto Kim Jong-un nell’Estremo Oriente Russo lo scorso settembre, il leader del Cremlino si appresta dunque a tornare nella capitale nordcoreana ventiquattro anni dopo l’ultima volta. Un viaggio che arriva dopo che pare ormai acclarata la fornitura di armi e missili da parte di Pyongyang all’esercito russo, per sostenerne la guerra in Ucraina. Dall’altra parte, Mosca avrebbe fornito consulenza e trasferimento tecnologico utile al regime di Kim per riuscire a mettere in orbita il suo primo satellite spia, nel terzo tentativo di fine novembre dopo i due precedenti falliti la scorsa estate. «La Cina dovrebbe stare all’erta per le potenziali mosse della Russia volte a creare problemi alle sue porte», ha detto stavolta in un forum pubblico Fang Ning, ex direttore dell’Istituto di Scienze Politiche dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali, vale a dire uno dei principali think tank sostenuti dallo Stato cinese, cioè dal Partito.
Affermazioni inusuali, quelle di Fang, che per una volta mostrano all’esterno i timori che Pechino tiene pressoché sempre impliciti, sulle manovre dell’ex «amico senza limiti». Sì, ex, visto che da quel 4 febbraio 2022, quando Xi accolse con tutti gli onori Putin a Pechino per l’apertura dei Giochi Olimpici Invernali, quell’etichetta diventata improvvisamente scomoda è sparita da tutti gli scambi e documenti congiunti. Con un dettaglio da non trascurare: Mosca ha continuato a usarla nelle sue comunicazioni verso l’esterno, salvo poi interrompere anch’essa dopo la visita di Xi al Cremlino dello scorso marzo, quando il nuovo documento congiunto usava la nuova formula di «amici di vecchia data».
Sin dall’inizio della guerra in Ucraina, la Russia prova sempre a magnificare l’appoggio cinese. All’inizio, quando era in seria difficoltà per la forza della reazione occidentale, Mosca voleva mostrare di non essere sola e di avere anche amici potenti. Non a caso, le fonti dei media internazionali sulle ipotesi di forniture militari di Pechino (poi smentite) arrivavano proprio dalla Russia. Con la Cina costretta ad abbozzare, visto che in ogni caso la rilevanza del legame con Mosca è a dir poco cruciale per Pechino, nonostante la riluttanza a seguire l’avventurismo putiniano.
Ora, Mosca intravede la possibilità di provare ad alzare il tiro, segnalando agli Stati Uniti un coordinamento (poco importa se pratico o solo teorico) con Pechino tale da poterli sfidare apertamente. O ancora, in un gioco di tatticismi incrociati, portare i venti di crisi a Est per paventare la possibilità dell’apertura di un fronte orientale. Un pericolo che costringerebbe Washington a giocare forse su troppi tavoli. C’è però anche la lettura più sottile, quella che sembra prediligere Fang, quindi il Partito comunista cinese: Putin potrebbe voler creare problemi nel vicinato della Cina per costringere Xi a uscire dalla sua zona grigia, o meglio dalla sua ambiguità strategica.
A quasi due anni dall’inizio della guerra in Ucraina, è probabile che la Russia faccia del suo meglio per confondere le acque al di là del campo di battaglia e scatenare altri focolai. L’obiettivo del Cremlino sarebbe quello di distrarre l’Occidente e indurlo a tagliare gli aiuti all’Ucraina, togliendo così pressione a Mosca. «È qualcosa di cui dobbiamo essere molto consapevoli e che dobbiamo affrontare con attenzione», ha dichiarato Fang a un forum della prestigiosa Università Renmin di Pechino, avvertendo che una «cooperazione più tangibile» tra Russia e Corea del Nord potrebbe portare a una «duplice pressione» sulla Cina. «Da un lato, la Corea del Nord e la Russia probabilmente si muoveranno per stringere ulteriormente le loro relazioni con noi per migliorare la loro capacità di contrastare gli Stati Uniti e l’Occidente. Dall’altro lato, gli Stati Uniti e l’Occidente cercheranno di creare un’atmosfera da guerra fredda in cui la Cina si allea con la Corea del Nord e la Russia».
Come gestire tutto questo? Un bel dilemma per Xi, che non ha mai dimostrato particolare apprezzamento per Kim. Xi è il primo presidente cinese a essersi recato in viaggio prima in Corea del Sud che in Corea del Nord. Non solo. Ha fatto aspettare Kim oltre cinque anni prima di accoglierlo a Pechino, dove poi però lo ha ricevuto ben quattro volte in meno di dodici mesi, tra il 2018 e il 2019. Era il periodo del dialogo e Xi aveva lavorato per mediare in occasione del negoziato tra il leader nordcoreano e l’allora presidente statunitense Donald Trump. Negoziato naufragato, tanto che Kim ha fatto saltare in aria l’ufficio di collegamento intercoreano di Kaesong, a pochi chilometri dalla zona demilitarizzata, quando ancora Biden non aveva vinto le elezioni per la Casa Bianca.
Complice il Covid, gli scambi tra Pechino e Pyongyang si sono interrotti, per poi riprendere nel 2023. Nel frattempo, la guerra in Ucraina aveva iniziato già ad avere importanti riflessi sull’assetto della penisola coreana. In Corea del Sud, con la vittoria del conservatore Yoon Suk-yeol alle presidenziali di marzo 2022, è cambiato tutto. Dalla postura dialogante dell’ex presidente Moon Jae-in si è passati a una contrapposizione colpo su colpo, con Yoon che anche a causa dei timori di un crescente allineamento sinorusso ha rafforzato in modo esponenziale l’alleanza militare con gli Stati Uniti. Non solo. È persino passato sopra la disputa storica con il Giappone per gli abusi del periodo della dominazione coloniale per interrompere la guerra commerciale e rilanciare l’alleanza trilaterale con Tokyo, con grande gioia della Casa Bianca che ha officiato il tutto durante il summit di Camp David dello scorso agosto. Dall’altra parte, Kim si è ulteriormente avvicinato a Putin, intravedendo l’occasione per rendersi utile alla Russia e di riflesso cercare di ottenere qualcosa anche dalla Cina.
Dopo il record di lanci balistici del 2022, Kim ha mandato in orbita il suo primo satellite spia, ha testato un’arma nucleare sottomarina e ha testato nuovi missili di diversa gittata. Dopo la cancellazione dell’accordo militare intercoreano del 2018, ha ripreso le attività nei pressi del confine, sparando dei colpi di artiglieria a inizio 2024 verso le isole di Baengnyeong e Yeonpyeong, causando la prima evacuazione dopo diversi anni.
Dopo aver definito l’obiettivo storico della riunificazione un «errore», nel suo discorso di fine anno, davanti alla plenaria del Partito del Lavoro, Kim ha peraltro chiesto di emendare la costituzione nordcoreana per sancire di fatto la separazione e la rivalità col Sud. La Corea del Sud verrà etichettata come «nemico principale e immutabile». Kim ha anche dichiarato che in caso di conflitto il territorio della Corea del Sud andrebbe «occupato completamente». Questo ha portato immediatamente all’abolizione di tutte le agenzie dedicate alla cooperazione intercoreana. E potrebbe trattarsi di qualcosa di più di una mera azione propagandistica. «La Corea del Nord ha abbastanza materiale fissile, per lo più uranio altamente arricchito, per circa cinquanta o sessanta testate nucleari», ha scritto Siegfried S. Hecker, uno scienziato dell’Università di Stanford in un recente articolo in cui sostiene che Kim possa aver messo in conto la possibilità di una guerra. Robert Carlin, l’altro autore ed ex analista dell’intelligence statunitense sulla Corea del Nord, ha detto in un’intervista di ritenere che Kim ha abbandonato una politica decennale di normalizzazione delle relazioni con gli Stati Uniti.
I più ottimisti ritengono invece possa trattarsi ancora di un innalzamento delle tensioni motivato dalla volontà di guadagnare migliori leve negoziali, in vista tra l’altro di possibili smottamenti politici presso i rivali, con le elezioni parlamentari di aprile in Corea del Sud che potrebbero azzoppare ulteriormente il presidente Yoon e quelle presidenziali negli Stati Uniti che potrebbero vedere il ritorno di Trump, che durante il suo primo mandato aveva messo a rischio gli accordi militari con Seul chiedendo un aumento esponenziale delle spese di difesa per mantenere i circa ventinovemila soldati statunitensi nel Paese.
Pechino, da parte sua, osserva con fastidio temendo di ritrovarsi nel suo vicinato ancora più mezzi statunitensi di quanto preventivato. Non sfuggano alcuni segnali sul triangolo Cina-Russia-Corea del Nord. Lo scorso luglio, al settantesimo anniversario dell’armistizio della guerra di Corea, Putin ha inviato a Pyongyang il ministro della Difesa Sergei Shoigu per la grande parata militare di Kim. Xi, invece, ha inviato “solo” Li Hongzhong, funzionario di medio livello del Politburo. E ancora, alle celebrazioni del settantacinquesimo anniversario della fondazione della Corea del Nord c’era il vice premier Liu Guozhong, presenza nettamente al ribasso rispetto a quella del settantesimo anniversario del 2018, quando Xi aveva inviato Li Zhanshu, allora presidente dell’Assemblea Nazionale del Popolo e numero tre della gerarchia del Partito comunista.
Non è un caso, forse, che annunciando la sua prossima visita, la Kcna abbia definito Putin «il migliore amico del popolo nordcoreano», un titolo che tradizionalmente spetta ai leader cinesi. Cionondimeno, proprio nei giorni scorsi è arrivato a Pyongyang il vice ministro degli Esteri Sun Weidong, che incontrando la ministra nordcoreana Choe Son-hui (reduce da una visita al Cremlino) ha garantito la volontà di «rafforzare i legami strategici a tutti i livelli». Allo stesso tempo, a dicembre si è riannodato un filo che era rimasto spezzato per oltre quattro anni, quello dei summit trilaterali tra Cina, Giappone e Corea del Sud. Dopo la ministeriale degli Esteri, nei prossimi mesi potrebbe esserci il primo vertice tra leader dal 2019.
Ma stavolta è difficile capire che ruolo possa giocare la Cina e soprattutto è complicato intuire come si possano ridurre le tensioni, anche perché i rapporti tra Stati Uniti e Cina non sono più quelli del 2017. La competizione strategica tra le due potenze è ormai acclarata e, nonostante Pechino non sia probabilmente entusiasta delle intemperanze di Kim, non potrebbe accettare la messa a rischio del suo regime. Perché se Taiwan è il primo obiettivo storico e politico del Partito comunista, allo stesso tempo la penisola coreana è il punto più strategico. Già negli anni Cinquanta, quando Mao Zedong si apprestava alla guerra aperta contro Chiang Kai-shek rifugiatosi a Taiwan, Pechino rinviò tutti i piani sull’isola per concentrarsi sulla guerra di Corea. Troppo importante evitare di ritrovarsi un governo coreano unico filostatunitense all’uscio di casa, visto che il confine in questo caso è terrestre e non c’è di mezzo uno stretto.