La Russia di Putin, autoproclamatosi nuovo zar di quello che sembrava il sepolto impero rosso d’Oriente, ha mostrato il suo volto più brutale. Le speranze di una convivenza pacifica con l’Occidente, dopo decenni di Guerra fredda ma di sostanziale stabilità, sono naufragate di colpo, sorprendendo anche molti cosiddetti esperti di analisi internazionale. È in atto uno scontro frontale di civiltà e di culture, si è detto, la democrazia occidentale contro una diversa visione del mondo. Ma l’unica soluzione possibile viene affidata oggi alle armi sempre più sofisticate e a un conflitto che è diventato ormai una guerra aperta tra i due antichi contendenti del potere mondiale. Gli Stati Uniti e la Russia sono di nuovo nemici in una contrapposizione frontale. In mezzo, otto milioni di profughi ucraini, un intero paese devastato, lo spettro di un’apocalisse nucleare tornato ad aleggiare sul nostro futuro, più vivo e presente che negli anni Sessanta del secolo scorso.
Con la caduta del muro di Berlino sono cominciati i giochi interni di potere, ma si sono anche aperti i primi varchi per poter viaggiare in quel territorio vastissimo, più grande dell’intera Europa. È questo che mi ha permesso, già nell’anno 2000, di affrontare la mia più grande inchiesta oltre l’ex cortina. Un muro non più di ferro, ma ancora di disinformazione e di buio, su quello che restava di settant’anni di socialismo sovietico.
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La nuova Russia di El’cin si era appena offerta di accettare i rifiuti radioattivi di mezza Europa da smaltire sul proprio territorio, candidandosi a diventare quella che avevamo chiamato, in redazione, la «pattumiera nucleare del mondo». Eccomi dunque a Musljumovo, negli Urali, armato di un contatore Geiger «fai da te» e di una buona dose di incoscienza, a denunciare i danni irreversibili dello sversamento delle scorie nucleari nel fiume Teča dagli anni Cinquanta a oggi. Poi a Murmansk, nel Mare di Barents, dove erano in corso lo smantellamento dei primi sommergibili nucleari e la raccolta delle loro testate atomiche. Anche lì, immagini di devastazione, un degrado ambientale pauroso e l’angoscia di un pericolo mortale.
È da quella prima inchiesta che partì il mio lungo viaggio (anzi, una lunga serie di viaggi), durato fino a oggi. Una ricerca del passato e del presente del mondo ex sovietico che mi ha portato a indagare tra gli orrori e le testimonianze dei gulag siberiani, tra le rovine di Groznyj e i campi profughi della Cecenia, i depositi di armi chimiche e biologiche – che si sarebbero dovuti distruggere – delle città segrete sugli Urali e in Siberia, le mille vie del gas che alimentano il potere sotterraneo della nuova Russia. Viaggi costellati di tante scoperte, tante delusioni, tanti incontri emozionanti, tanti niet apparentemente definitivi, che diventavano per me una sfida da superare.
Rileggendo gli appunti e i diari, mi accorgo ora di un filo rosso che unisce tutti quei personaggi e quelle storie e che forse aiuta a comprendere meglio anche quello che sta succedendo oggi.
Difficile capire i missili sulle città ucraine senza essere stati tra le macerie di Groznyj nel 2000, senza aver vissuto la gioia dei giovani nella rivolta arancione in piazza Maidan nel 2014, senza aver conosciuto l’onestà intellettuale e l’integrità di una donna coraggiosa come Anna Politkovskaja, che ho incontrato varie volte nella redazione della «Novaja Gazeta». […]
Nelle città, nei villaggi e nelle campagne dell’ex impero sovietico ho avuto anche l’occasione di conoscere persone decisamente fuori dal comune, fari luminosi in un mondo spesso ancora avvolto dalle tenebre. Come i tanti giornalisti russi in prima linea, che non esitavano a rischiare la propria vita per difendere il diritto all’informazione. Come Natalja Estemirova, implacabile nella sua denuncia della politica criminale di Kadyrov, l’uomo di Putin nella Cecenia riportata sotto il controllo russo. Poco dopo veniva rapita e uccisa da sicari governativi, mentre si stava recando nel suo ufficio presso l’associazione Memorial di Groznyj, dove raccoglieva le testimonianze delle madri che lamentavano e denunciavano la scomparsa dei propri figli e mariti. Come Dmitrij Muratov, direttore della «Novaja Gazeta», una delle poche voci libere di Mosca, rimasta tale fino alla chiusura dopo l’inizio della guerra in Ucraina, insignito nel 2021 del premio Nobel per la pace. Come la già citata Anna Politkovskaja, che sono stato uno dei pochi stranieri a poter intervistare a lungo. Ho registrato e risento ancora oggi con emozione la sua risposta, quando le chiedevo se avesse paura di Putin e del Cremlino. «Tutti hanno paura ora» mi disse, «e anche io sono una parte del tutto. Anch’io ho paura, ma questa è la mia professione e avere paura è una cosa tua personale.»
Mai, come nel caso della Russia, si avverte a pelle il peso della storia. Con i valori spirituali e autentici di una cultura millenaria, con le sue tradizioni religiose, la vitalità, la capacità di sopportazione e la bontà d’animo delle radici contadine e della gente semplice. Ma anche con il condizionamento della politica e una deriva autoritaria che percorre i secoli: dal dispotismo più o meno illuminato degli zar alla rivoluzione bolscevica, dalle purghe e i gulag di Stalin fino alle velleità neoimperialiste di Putin e alla corruzione nel mondo degli oligarchi.