La scorsa settimana è girato molto questo titolo: «Per il 67% degli occupati italiani, la priorità è lavorare meno». Il dato è del rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, secondo cui già oggi più o meno un terzo degli intervistati non risponde a email e chiamate fuori dall’orario di lavoro. E in futuro vorrebbe anche fare meno.
La spiegazione più diffusa (di cui abbiamo più volte parlato in questa newsletter) è quella di un cambio di prospettive dopo la pandemia, per cui abbiamo rivisto il nostro rapporto con il lavoro dando più spazio alla vita privata. Sì, ok.
Ma non è che forse ci siamo anche stancati di lavorare troppo e guadagnare troppo poco?
Stachanov italiani In Italia, secondo i dati Ocse, il 9,4% degli occupati, circa 2,7 milioni di persone, supera le 49 ore di lavoro a settimana. Ore eccessive e straordinari sono diffusi soprattutto tra gli autonomi, meno tra i dipendenti. (Tanto per capirci: la prima convenzione dell’organizzazione internazionale del lavoro (Oil) del 1919 prevede un limite massimo di 48 ore settimanali).
In Europa pochi passano più tempo in ufficio o in fabbrica dei lavoratori italiani.
Ed ecco che a questo punto arriva la parola magica: produttività. Il problema è che in Italia, mentre le ore lavorate nel 2022 sono aumentate del 4,8%, il valore aggiunto prodotto è stato solo del +4,1 per cento. Ergo: la produttività è diminuita dello 0,7 per cento.
Certo, dipende dai settori: sulla produttività l’industria fa meglio dei servizi. Ma i settori nei quali l’Italia ottiene risultati migliori rappresentano solo il 18% del valore aggiunto e l’11% delle ore lavorate, mentre i settori in cui va peggio rappresentano il 23% del valore aggiunto e il 28% delle ore lavorate. E questi ultimi includono il settore chiave dell’Information and communication.
Non è un caso, come raccontavamo la scorsa settimana, che i rinnovi contrattuali siano più semplici in alcuni comparti anziché in altri. Perché laddove in un’ora o in un giorno si genera un servizio o un prodotto di alto valore, quest’ora e questo giorno possono essere pagati di più. Da qui, la correlazione tra bassa produttività e bassi salari, nonostante l’alto numero di ore di lavoro.
Quindi?
Se non si possono avere stipendi più alti, tanto vale lavorare di meno – ci ha spiegato l’avvocato Luca Failla, esperto di diritto del lavoro. Ed ecco che aumenta l’attenzione per la settimana corta, sia da parte degli imprenditori sia dei lavoratori. I seminari sul tema fanno il pienone. Le sperimentazioni di Luxottica e Lamborghini hanno fatto da apripista nella manifattura, dimostrando che non servono nuove leggi. E ora anche i metalmeccanici, in vista del rinnovo del contratto, chiedono la riduzione dell’orario a 35 ore. Mentre i colleghi tedeschi puntano addirittura alle 32 ore.
La scommessa è che, se lavori quattro giorni su cinque (con geometrie variabili di caso in caso), venga garantita una produttività almeno non inferiore a prima. C’è poi chi scommette anche su un aumento della produttività.
In realtà, in Italia non abbiamo ancora dati sulle sperimentazioni in atto. L’esperimento di Sace, primo nel settore pubblico, sarà monitorato dal Politecnico di Milano e sarà interessante osservare i risultati che verranno fuori.
Le informazioni che arrivano dagli esperimenti fatti in Gran Bretagna dicono che le conseguenze sulla produttività non sono scontate. Il 51 per cento delle 61 aziende partecipanti al trial di sei mesi ha deciso di rendere stabile la settimana di quattro giorni, ma solo meno della metà dice che la produttività è migliorata. E non tutti hanno retto. Alcune aziende sono tornate al vecchio schema di cinque giorni. E molti dipendenti si sono dimessi perché, se lavori per meno giorni, in quei giorni aumenta l’intensità di lavoro e si lavora peggio.
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Il problema di questa impostazione, forse, è ancora quello di pensare ancora al lavoro suddiviso in ore e giorni e non a «come lavoriamo» – spiegano diversi esperti al Financial Times. La produttività, come abbiamo visto, non dipende dal monte ore. Arup, società di ingegneria britannica, è andata ad esempio nella direzione opposta, consentendo ai dipendenti di distribuire il proprio orario di lavoro su una settimana lunga di sette giorni.
Allora forse non sarebbe meglio avere giornate variabili anziché solo settimane corte? Magari lavorando quando ci sentiamo più «produttivi», appunto. Che per alcuni può voler dire all’alba, per altri di notte, per altri ancora la domenica. Prendendosi il tempo durante la giornata anche per una corsa o per le commissioni familiari. C’è una parola per questo: cronoworking.
Secondo lo psicologo americano Michael Breus, il 55 per cento delle persone riscontra il picco di produttività a metà giornata, il 15 per cento è più adatto a partire la mattina presto, un altro 15 per cento preferisce lavorare fino a tarda notte e il 10 per cento ha un ritmo circadiano che può variare di giorno in giorno. Il segreto è capire quando siamo più produttivi e come ottenere il massimo dal nostro lavoro.
Certo, non può valere per tutte le aziende. E in ogni caso, i membri di un team necessitano comunque di almeno alcune «ore incrociate» per riunioni e progetti condivisi.
Ma, insomma, la settimana corta non è l’unica soluzione.
Soprattutto se in alcuni casi l’intento nasce solo dalla necessità di scaricare i permessi non fruiti dai lavoratori!
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