«Se l’Europa abbandona la propria identità», si intitola l’editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del 5 Febbraio. L’affondo, basato su un articolo pubblicato sul Mulino da Federico Poggianti, punta il dito contro l’Europa e contro chi gestisce i programmi europei di ricerca a Bruxelles, accusati di sovvenzionare massicciamente le discipline tecnologico-scientifiche, riservando solo una parte marginale (il due per cento del totale) alle cosiddette scienze sociali e agli studi umanistici (“humanities”) come la storia, l’economia, le letterature o la sociologia.
Anzi, all’interno di quel misero due per cento, la parte del leone la farebbero economisti e sociologi, mentre per le humanities si conterebbero le briciole. Secondo entrambi gli articoli, questa penalizzazione (anzi «questo autentico disprezzo per le letterature, le filologie, il diritto, la storia», come scrive Galli della Loggia) avrebbe un’origine addirittura ideologica, perché «gli studi storico sociologici sarebbero troppo rivolti al nostro passato nazionale, e quindi invisi a Bruxelles» e perché «l’Ue vede nelle scienze sociali una fonte di legittimazione del proprio processo decisionale e difficilmente i progetti selezionati si discosteranno significativamente dagli indirizzi politici di Bruxelles».
Insomma, un’Europa matrigna, ottusa e miope anche quando si occupa di ricerca scientifica. Tanta roba. Ma scorretta.
Primo, le cifre citate sono incomplete e fuorvianti. Se guardiamo i bandi dello European Research Council, cioè la fetta della torta europea aperta a tutte le discipline scientifiche, le Social Studies and Humanities (Ssh) assorbono il ventiquattro per cento del budget totale, e non il due per cento (e quasi la metà finanzia ricerche storiche o sociologiche), mentre nel resto del programma europeo di ricerca “Horizon Europe” dedicato alle grandi sfide, il cluster “Cultura, creatività e società inclusive” ha raddoppiato gli stanziamenti, passando da uno a 1,9 miliardi di euro rispetto alla precedente programmazione – secondo la European Alliance for Social Studies and Humanities. Restano cifre minoritarie, ma in quale Paese europeo o extra-europeo un governo finanzia il ventiquattro per cento di progetti storici, giuridici o sociologici? In realtà, in tutto il mondo si vede l’Europa come una delle rarissime realtà che sostiene significativamente la ricerca in queste discipline.
Secondo, i programmi europei di ricerca – così come ogni programma o direttiva europea – sono proposti da Bruxelles ma decisi dai ventisette governi nel Consiglio, oltre che dal Parlamento europeo. Anche la quota di finanziamento per le scienze sociali e le humanities all’interno del programma Horizon Europe è decisa con il coinvolgimento degli Stati membri. Se la maggior parte dei finanziamenti va alla ricerca medica, climatica, tecnologica o digitale, a scapito della storia e della sociologia, la responsabilità va imputata anche ai ventisette governi europei. Guidati, in questa scelta, dalla necessità di affrontare e comprendere le emergenze e le rivoluzioni di oggi (sanitarie, climatiche, digitali, ecc.) più che da riluttanza verso i passati nazionali.
Terzo, per finanziare la storia o la società dei singoli Paesi europei esistono anche (e soprattutto) i programmi nazionali di ricerca. E in ogni caso, non mancano progetti finanziati da Horizon come “Spain on Stage: Dance and the Imagination of National Identity” coordinato dal Cnr spagnolo oppure “La lotta di classe nell’antica Grecia” dell’Università di Edimburgo, per citare solo due esempi.
Quarto, la formazione delle proposte di policy europee si basa (fortunatamente) sempre più su evidenze e basi scientifiche, che si pensi al clima, alla salute, all’energia, alla sicurezza alimentare, ecc. Ma sfugge il legame tra ricerche storico-sociologiche e processi decisionali europei. Questi ultimi sono scritti nei Trattati, che peraltro sono negoziati e decisi dai Paesi e non dalla Commissione di Bruxelles e trovano la loro piena legittimazione nelle ratifiche parlamentari dei Paesi membri.
Quinto e ultimo, l’autore sottolinea anche che le discipline umanistiche sono penalizzate dall’approccio di squadra richiesto da molti bandi europei («un vero e proprio feticcio venerato dai giudici bruxellesi», sic). Sarà vero? In realtà, il più importante finanziamento alla ricerca di base, quello del già citato European Research Council, è rivolto a singoli ricercatori e non a consorzi o gruppi.
È vero invece che le humanities possono essere penalizzate dalla misurazione del loro impatto e “expected benefit”, che in altre discipline è sicuramente più misurabile e più rilevante. Ma questo è l’unico punto su cui varrebbe la pena dibattere. Che comunque non ha nulla a che vedere con l’approccio “ideologico” di cui sopra.
Insomma, nella storia dei nostri Paesi e dei nostri variegati passati ritroviamo le radici dell’Europa, nessuno lo nega, ma proprio questo passato ci insegna che i demoni della storia vanno combattuti anche con gli strumenti della modernità, comprese le organizzazioni sovranazionali, il multilateralismo e la cooperazione tra i Paesi. In questo presente e in questo futuro le nostre radici si fanno sentire anche senza farsi vedere: se pensiamo a come l’Europa si pone in termini etici sull’Intelligenza Artificiale, o come sia il maggior donatore mondiale di aiuti allo sviluppo e di interventi umanitari, o se pensiamo al modello europeo in campo ambientale, sociale, giuridico o dei diritti umani, dobbiamo dedurre che le politiche europee di oggi sono figlie dei nostri passati e delle nostre civiltà, dei nostri pensatori, scrittori, artisti, santi e dirigenti.
L’Europa è minacciata nella sua integrità e nella sua identità da nemici visibili e invisibili. Ma che questa minaccia sia da imputare anche ai suoi programmi di ricerca – quelli che hanno permesso per esempio di sviluppare l’Rna messaggero e quindi i vaccini anti-Covid, oppure nuovi materiali come il grafene, o ancora il rientro in Europa di tanti cervelli in fuga – sembra davvero una boutade, e per di più priva di basi… scientifiche.