C’è un certo suono che non smetterà mai di piacere alla platea inglese e la voce di Liam Gallagher (fortuna sua e a dispetto degli anni che passano) l’interpreta perfettamente e lo fa sembrare un pezzo di ieri conficcato dentro l’oggi. Motivo per cui ogniqualvolta – a partire dal 2009, anno in cui, dopo l’ennesima scazzottata tra fratelli, si sciolsero per sempre gli Oasis, la band cui l’Inghilterra aveva un bisogno fisico – ogni volta che Liam mette in scena qualcosa di nuovo, la gente che sente musica da quelle parti (tutti) va a sentire di che si tratta e quasi sempre s’affeziona. A questo punto parliamo di gente che ha venti, trenta, anche cinquant’anni e più, dal momento che l’ex-frontman della band più amata del britpop adesso va per i 52 (Noel ne ha 57) e alle spalle si è messo anche due matrimoni, un’effimera band post-Oasis, i Beady Eye e tre album solisti finiti puntualmente al numero uno delle classifiche di vendita. Insomma una sempreverde istituzione britannica, col perenne problema, per lui e per l’entourage che lo salvaguarda come un delicato re Mida, di trovare la prossima mossa giusta da fare.
È qui che entra in campo John Squire, l’ex-chitarrista di un altro intramontabile mito nel Regno Unito, gli Stone Roses. Per collocarli dobbiamo fare un altro passo indietro, a quel che si suonava da quelle parti prima che deflagrasse il britpop (Squire di anni ne ha dieci in più di Gallagher), risalendo a una cosa che spopolò a fine anni Ottanta chiamata “Madchester”, ovvero la scena nata nella metropoli del nord facendo fiorire la contaminazione indie-dance, fusione tra l’urgenza giovanile “to be in a band” come migliore avventura post-adolescenziale, con l’esplosione della rave culture, dell’acid house, della neo-psichedelia. La casa madre del movimento era la label Factory di Tony Wilson e le band che spopolavano erano i magnfici Happy Mondays, Inspiral Carpets, Charlatans e i più amati di tutti, gli Stone Roses guidati da Ian Brown, voce, e John Squire, chitarra, hitmaker della bella sbornia collettiva chiama “seconda Estate dell’Amore”. Il giovane Gallagher, sedicenne turbolento venuto su a Manchester, si è nutrito di birra, lsd e Stone Roses, e guardando loro ha cominciato a pensare che anche lui avrebbe voluto il suo gruppo col quale trasformare la vita in una cavalcata lontana dalla miseria.
Sorvoliamo sui quasi quarant’anni seguenti, sottolineando solo che queste figure e queste parabole vanno collocate bene al centro del quadro sociologico, se si indagano i fattori culturale formativi dell’essere britannici tra fine XX secolo e più o meno adesso – anche se Liam si diverte a dire che oggi essere in una band è la cosa più fuori moda che ci sia, roba da vecchi, ora è tutto un “me, me, me”. Ma dal momento che gli inglesi non divorziano mai dai loro idoli giovanili, anche disciolti i loro gruppi, personaggi come Liam Gallagher e John Squire hanno continuato a essere amorevolmente seguiti dai loro fans, che sembravano tutti cugini fatti con lo stampino – football, pub e inni romantici alla gioventù – milioni di cugini, a cominciare dall’intera Manchester, alla faccia della fottuta Liverpool. Così questo matrimonio da un po’ era nell’aria, ma non arrivava mai: Liam e John s’annusavano, accennavano collaborazioni, si facevano vedere insieme su qualche palco, ma non succedeva, fino adesso. Dietro ci dev’essere stata una trattativa degna di Metternich, coi due staff a mettere tutti i puntini sulle “i”, in modo che loro, invece, hanno potuto continuare ad atteggiarsi agli artisti indolenti, il Liam perennemente vedovo degli Oasis e del fratellone che l’ha ripudiato e John a sperimentare cose diverse, a cominciare dalla pittura, dopo essersi fracassato un polso giocando coi figli, mettendo a repentaglio la sua capacità di suonare la chitarra.
Invece la chitarra è tornato a suonarla eccome, s’è messo sotto a lavorare, ha scritto dieci pezzi, testi e musica, che descrivono un prontuario dell’anima pop britannica, linguaggio il cui codice è riservato a pochi – John Lennon, Paul Weller, Johnny Marr, per fare dei nomi. Pezzi che hanno dentro l’adrenalina del venerdì sera, che camminano svelti, che a ogni passaggio tengono conto dei Bealtes, degli Stones e di “Quadrophenia”, le cui liriche si rivolgono a una ragazza ma parlano a dei ragazzi come loro, in cui le melodia è soave ma l’armonia è elettrica, un po’ selvaggia, mobile, canzoni che si disciolgono come ambrosia nell’ugola di Liam, che sembra sempre nato per cantarle e lungo le quali la chitarra di Squire fa ciò che la chitarra di Mick Ronson faceva con le composizioni di Bowie, ovvero gli inietta l’irrequietezza della vita.
Il risultato è l’album che adesso sta facendo parecchio alzare il sopracciglio degli inglesi, padri e figli: si chiama coi loro nomi “Liam Gallagher & John Squire”, schizzerà in testa alle classifiche e anticiperà un’estate di cui il formidabile dream team sarà la principale attrazione nei cartelloni dei grandi festival. Ci pare già di vederla, una di quelle notti delle moltitudini, nelle quali suona la band che era troppo sognare si formasse mai, e tutto sembra per un momento sembra andare alla perfezione.