Ogni spiata di cui gli ispettori Callaghan della lotta al malaffare dispongono la pubblicazione – mai che qualcuno disubbidisca – è l’alba di un nuovo Giorno della marmotta, in cui il giornalista collettivo italiano si risveglia a dire e fare le stesse cose del giorno prima e del giorno dopo.
Sono troppo giovane per ricordarmi quando è iniziata la trasmutazione di chi per mestiere dovrebbe dissipare, e non manovrare le ombre della lotta per il potere, in un sensale di dispacci in codice e in un pony express di ricatti e di veleni.
Sono però abbastanza vecchio da avere assistito in diretta alla nobilitazione deontologica di questo giornalismo ramo delivery da parte del mandarinato della professione. Prendere i pacchi bomba preconfezionati e portarli a esplodere sotto il culo di questo o di quello è diventato da tempo in Italia il non plus ultra dell’etica giornalistica, e la forma privilegiata del servizio civile universale che la stampa deve rendere alla causa della giustizia, della verità e della democrazia.
Questa lezione, impartita ex cathedra dai maestri dalla schiena dritta e disciplinatamente appresa da chi non sperava bastasse così poco per onorare il mestiere, ha prodotto una cultura ampiamente condivisa, a prescindere dalle opposte affiliazioni politiche e editoriali dei colleghi che, a seconda delle circostanze e della posizione, si sono trovati a sedere dal lato dell’accusatore o da quello del difensore del cattivo di turno, cioè della vittima di una delle implacabili operazioni speciali per fare piazza pulita del malaffare.
Se uno prende le parole con cui l’editore e il direttore del Domani, Carlo De Benedetti e Emiliano Fittipaldi, hanno difeso la reputazione di una testata trasformata in una bacheca di pizzini non scoprirà nessuna sostanziale differenza con quelle che l’editore per interposto fratello, Silvio Berlusconi e il direttore de Il Giornale Maurizio Belpietro, nel 2006 utilizzarono per giustificare la ricettazione dell’intercettazione di Piero Fassino su «Abbiamo una banca».
Noi abbiamo il dovere di dare le notizie di rilevanza pubblica, i cittadini hanno il diritto di conoscerle. Qualunque reato sia stato compiuto a monte e a valle del doveroso scoperchiamento delle fogne del potere è un effetto collaterale scriminato, se non dalla legge, dalla superiore coscienza di noi umili servitori degli interessi del popolo. Bla bla bla…
Peraltro, il problema di questi scoop teleguidati per interessi evidentemente non giornalistici non è solo che implicano violazioni di legge dalle conseguenze potenzialmente nefaste e, in ogni caso, sempre ingiuste per i bersagli delle campagne organizzate di character assassination.
Il problema principale è che trasformano la cosiddetta libera stampa in una intendenza gregaria, e il quarto potere in un sotto-potere di apparato e in una burocrazia intellettuale fungibile, come se fare informazione non fosse esattamente il contrario del propalare “dati” per conto terzi e non servisse essenzialmente a demistificare l’apparente auto-evidenza dei fatti suggerita da una propaganda contraffattoria.
Il giornalista collettivo medio, in Italia, senza differenze tra quello progressista e quello contro-progressista, è ormai così mitridatizzato all’abuso e al sopruso da non rendersi più neppure conto, se non per temporanei rigurgiti di coscienza, che il grande bazar delle “voci di dentro” del potere non soddisfa affatto il diritto dei cittadini a sapere quanto vogliono capire, ma soddisfa l’interesse di qualcun altro a far sapere loro quel che devono credere.
Nascondere la responsabilità della scelta – cosa raccontare, come farlo, per dire cosa – dietro l’apparente neutralità dei documenti trafugati e spiattellati tal quali è per chi fa informazione il crisma dell’impostura e del tradimento, ed è invece diventata la garanzia dell’imparzialità e dell’affidabilità.
A degradare i giornalisti a galoppini di qualunque ordalia concorre inoltre in Italia una grottesca ibridazione di eresia gnostica e di parafilia voyeuristica, per cui non si può dare conoscenza se non per rivelazione “illuminata”, e non si può accedere ad alcuna verità se non violandone furtivamente il segreto.
Così, come i guardoni non si eccitano se non spiando le vittime dal buco della serratura o da un rifugio inaccessibile allo sguardo altrui, i funzionari del guardonismo mediatico-giudiziario apprestano postazioni di monitoraggio dei “segreti del potere” per l’orgasmo dello sdegno populista.
Dunque uno Striano tira l’altro e ogni giorno è uguale al precedente e al successivo, nel perenne inseguimento di una verità nascosta in qualche cassetto, in qualche database o comunque in qualche ripostiglio sorvegliato da un personaggio in toga o in divisa e dalla sua cerchia di giornalisti a disposizione.