Sul conflitto politico e militare in terra santa, culla di tutte le maggiori religioni monoteiste, ho sempre avuto una posizione analoga a quella che da tempo ho maturato nei confronti di ogni religione, riassumibile in un sostanziale agnosticismo. Anzi, che si trattasse dell’origine dell’universo o della ragnatela di reciproche sopraffazioni della questione israelo-palestinese, ho sempre trovato sorprendente come gli altri riuscissero invece a formarsi con tale facilità un giudizio univoco, inscalfibile e perfettamente definito.
L’atroce spettacolo del 7 ottobre, e ancor più l’incredibile rapidità con cui è stato rimosso o consapevolmente sminuito da gran parte dell’opinione pubblica occidentale (per non parlare del resto del mondo), ben prima che Israele muovesse un dito per reagire, avevano cominciato a intaccare la mia equidistanza e a farmi propendere, almeno emotivamente, per lo stato ebraico. L’atroce spettacolo della carneficina di Gaza, fino all’ultima orribile strage di ieri, con sette volontari uccisi «per errore» da un drone israeliano mentre portavano aiuti, mi ha riprecipitato al punto di partenza, ma in una posizione ben più scomoda, diviso tra l’orrore per le migliaia di vittime palestinesi e l’angoscia per il dilagare dell’antisemitismo nel mondo. Un altro prevedibile «effetto collaterale», quest’ultimo, della strategia di Benjamin Netanyahu, che almeno in parte andrebbe addebitato a lui e ai suoi più fanatici sostenitori (da sempre i migliori alleati dei fondamentalisti).
Come unica certezza, mi resta in compenso un’invincibile antipatia per i discorsi tartufeschi di chi si accoda alla campagna di boicottaggio delle università israeliane, ma assicura che non si è accodato affatto e che non si tratta neanche di boicottaggio, ma semplicemente di rispettare l’articolo 11 della Costituzione alla luce del fondamentale problema del «dual use», in parole povere la possibilità che alcune tecnologie civili vengano poi utilizzate a scopi militari (ricordo per inciso che internet è un fantastico caso di «dual use» al contrario: una tecnologia nata per scopi militari che ha trovato impensate possibilità di utilizzo civile, vedi a volte com’è strana la vita).
Non so se debba spaventarci di più l’antisemitismo o il conformismo, ma sospetto che il primo sia spesso una conseguenza del secondo, e negli ultimi tempi specialmente di un certo conformismo antioccidentale, pronto a giustificare qualunque crimine, atto di terrorismo e persino guerra di sterminio con le malefatte di Israele, della Nato o degli americani, ovviamente pilotati dall’onnipresente lobby ebraica.
Difficile dire cosa sia peggio, se l’antisemitismo dichiarato di chi invoca la distruzione di Israele e la morte di tutti gli ebrei o quello implicito di chi auspica educatamente il venir meno di un’entità statale in cui vivono nove milioni di persone, evidentemente senza domandarsi dove dovrebbero andare e che fine farebbero (i precedenti storici, per quanto riguarda le minoranze ebraiche negli altri paesi della regione, non sono incoraggianti).
Ancora più difficile, in questi casi, è stabilire il confine tra ignoranza, ingenuità e malafede. Resta però indimenticabile e illuminante, in proposito, l’articolo di Ron Hassner pubblicato il 5 dicembre scorso sul Wall Street Journal, a partire da un sondaggio condotto sugli studenti americani riguardo al cupo slogan «From the river to the sea, Palestine will be free» («Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera»), che in questi mesi abbiamo sentito echeggiare anche nelle manifestazioni italiane. Slogan condiviso dalla larga maggioranza degli intervistati, di cui tuttavia meno della metà (47%) sapeva dire a quale fiume e a quale mare si riferisse: molti puntavano sul Tigri e sull’Eufrate, confondendo probabilmente i palestinesi con i babilonesi, e sul Mar Morto, che è un lago. In compenso, tra coloro cui veniva mostrato sulla cartina che si trattava del fiume Giordano e del mar Mediterraneo, e che di conseguenza non restava alcuno spazio per uno stato israeliano, la larghissima maggioranza ritirava il proprio sostegno allo slogan. Lascio al lettore stabilire se il risultato di questo sondaggio debba essere per noi motivo di speranza o di disperazione.
Questo è un estratto di “La Linea” la newsletter de Linkiesta curata da Francesco Cundari per orientarsi nel gran guazzabuglio della politica e della vita, tutte le mattine – dal lunedì al venerdì – alle sette. Più o meno. Qui per iscriversi.