Non era mai successo: alla parola “potere” molti fra le scrittrici e gli scrittori invitati a partecipare a questo numero hanno scosso la testa ed espresso dubbi. Potere? In che senso? Potere? Ma perché?
Non era mai successo nemmeno a me, li chiamavo per proporre l’invito e mi giustificavo: potere sì, ma da declinare in ogni senso possibile, siamo sempre quella rivista letteraria per la quale potete deformare la parola come preferite. Potere, anche come equilibri personali, asimmetria di relazioni. Potere anche nel senso di un potere subìto, non per forza esercitato. Mi trovavo a dire frasi del genere, tranne in pochi casi, in cui sapevo che poteva esistere il desiderio, il coraggio, di narrarlo quel potere: di guardarlo dentro e raccontare com’è abitarlo, eventualmente persino possederlo senza paura di inficiare un’idea di purezza forse ingenua, forse necessaria a chi scrive per sentirsi al riparo da pressioni e dinamiche che non vuole riconoscere come tali.
Ma è proprio così che vanno le cose? È giusto che chi scrive voglia fuggire gli spettri di questa parola? E se un giorno scoprissimo che senza questo potere che tanto temiamo lo spazio potenzialmente esplosivo dentro cui scrivere sarebbe molto meno interessante?
Potere, ripetevo – come se mi vergognassi. E se scoprissimo che senza la paura della corruzione non siamo nulla? Potremmo resistere alla scoperta di vivere sotto il ricatto di una funzione negativa?
Poi, i racconti hanno cominciato ad arrivare, e il potere faceva meno paura. O forse molta di più, perché leggendo mi aspettavo, e in qualche caso sentivo dall’altro lato, lo sforzo di essere all’altezza di una parola così poco percepita come letteraria. Oltre che disabitudine alle possibilità del suo campo semantico, porta in sé la trappola di una dicotomia: il potere o lo hai o ce l’ha qualcun altro per te – ma, di nuovo, è proprio così che vanno le cose?
Insomma, peggio per me che mi ero fidata. Nella riunione di redazione per decidere la parola chiave di questo numero, “potere” era piaciuta a tutti tranne che a me. Che quindi avevo abdicato al mio potere. Oppure l’avevo esercitato in modo democratico: dando ragione alla maggioranza. Oppure ancora, mi ero lasciata usurpare. Chi può dire quali siano davvero le gerarchie?
Forse, anche più di “sesso”, questa è la parola più incandescente che abbiamo scelto, e il risultato è composito, molto interessante anche per quanto riguarda la poesia. Nessuna scrittrice e nessuno scrittore tra quelli coinvolti si è poi tirato indietro, nonostante i dubbi espressi. Nessuno è più tornato sull’argomento, dopo aver consegnato il testo – e sono arrivati dei testi dei quali non voglio anticipare nulla, perché se c’è una cosa che non mi piace delle antologie, e di cui non sento il bisogno, è il riassunto dei racconti con un forzato filo conduttore e una serie di semplificazioni. L’unico filo conduttore, come sempre, è una parola da far risuonare in bocca e nella testa, da far schioccare e rigirare su se stessa, da portarsi altrove in mille universi possibili. POTERE, tutto maiuscolo affinché faccia più paura, oppure tutto minuscolo perché sia chiaro che siamo sempre sudditi, e sempre marciamo sulla testa dei re, come vuole quel verso di Shakespeare.
Sono convinta che aver accettato una sfida e averla attraversata abbia dato una certa disinvoltura a chi ha accettato con tentennamenti, e anche contribuito ad archiviare la pratica: in fondo, c’è letteratura solo se c’è un problema, e il problema con il potere è sempre sostanzioso, almeno finché non lo si fa a pezzi sulla pagina. Quanto a me, proprio nelle settimane in cui ricevevo i racconti per K, ne ho avuto uno: una trasmissione televisiva mi ha chiamata invitandomi a scrivere e recitare un monologo, ma dopo aver inviato il testo sono stata contattata dalla redazione che mi ha informata che avrei dovuto modificarlo secondo precise indicazioni. Mi sono rifiutata. Era un testo sul potere. Contro il potere.
Ho rinunciato alla puntata, e ho tenuto il testo originale che ha poi avuto altre destinazioni. Siamo sempre ingranaggi, ma possiamo quasi sempre sottrarci: il quasi apre uno spazio e ne chiude un altro. Stavolta ero in uno spazio aperto. Uno spazio dal quale mi è stato impedito di marciare sulla testa dei sovrani da un palco, e io me ne sono presa un altro, anzi me lo sono costruita apposta – trasformando senza troppe chiacchiere quel divieto, con una sparizione e un’esplosione, nel senso di un altro racconto.