Al tramonto degli anni Sessanta, con la Riforma Brodolini, l’Italia scelse di dare vita a un sistema previdenziale “a ripartizione” nel quale l’onere di finanziare le pensioni in essere sarebbe stato in capo ai lavoratori, senza lasciare la possibilità alle persone di accumulare un fondo pensionistico personale. Oggi la bilancia demografica ha del tutto perso il suo equilibrio: sedici milioni di pensionati a fronte di una popolazione totale di cinquantanove milioni, di cui circa 23,5 milioni gli occupati. I contributi di chi lavora, quindi, non bastano più a coprire tutte le posizioni pensionistiche, con oneri aggiuntivi a carico dello Stato e, di conseguenza, minori investimenti sul welfare.
Dinanzi alla drammatica traiettoria discendente della curva demografica e alla profonda crisi sociale che dilaga in una generazione che non immagina più il proprio futuro in Italia, c’è il rischio che questa tensione si tramuti nell’ennesima bomba a orologeria pronta a esplodere in faccia alla nostra miope classe dirigente.
Mentre alcuni Stati hanno deciso di aderire a un sistema “contributivo” sin dal principio, facendo sì che i contributi di ciascun lavoratore presente costituissero la base per la sua pensione futura (con qualche correttivo), l’Italia per lungo tempo è stata refrattaria ad adottare questo metodo, arrivando solo nel 1995 a sostituirlo a quello “retributivo”, certamente insostenibile. Si trattò di una mossa necessaria, seppur assai avversata da buona parte della politica e dei sindacati. Anche questo non è stato comunque sufficiente: la riforma non ha agganciato l’età pensionabile all’andamento demografico fino al 2011, anno in cui il Governo Monti ha varato la famigerata riforma Fornero.
Seguire l’andamento demografico è indispensabile per impedire che siano le generazioni future a portare il peso di scelte politiche irresponsabili, volte a garantire un trattamento “generoso” a quanti aspettano di andare in pensione e potrebbero ricambiare il favore nell’urna.
Prima di migliorare, la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente: l’Istat prevede nei prossimi anni un crollo della popolazione residente in Italia. Inoltre, il rapporto tra le persone occupabili e quelle non occupabili si assottiglierà sempre di più, creando una maggiore pressione sociale soprattutto per chi non riceve i contributi pubblici – e quindi, tendenzialmente, proprio i più giovani. La politica italiana d’altronde è sempre pronta a intercettare i bisogni dei segmenti più anziani (e numerosi) della popolazione, aggravando questo quadro con decisioni politiche forzate come quota 100.
La soluzione è semplice, anche se certamente non è semplice farla digerire all’elettorato: tagliare le pensioni. Questa misura così apparentemente drastica è l’unico rimedio possibile al furto generazionale in atto, ma potrà essere adottata solo se smetteremo di guardare all’oggi, alla contingenza, dando corpo invece ad un’autentica solidarietà intergenerazionale. La riduzione deve essere accuratamente calibrata, evitando che questa scelta impatti sulle vite dei soggetti più vulnerabili: l’obiettivo è colpire al cuore un sistema iniquo, che genererà nuove vulnerabilità nel prossimo futuro. Per questo occorre immaginare una riduzione dell’adeguamento delle pensioni all’inflazione e aggredire anzitutto le pensioni più alte, il cinque per cento più alto di tutta la piramide pensionistica. Una scelta simile favorirebbe l’accesso nel mercato ai più giovani e potrebbe liberare già decine di miliardi da destinare a scuola, università e ricerca. Per questo serve promuovere politiche più giuste ed eque, in grado di restituire dignità a una generazione sfruttata e truffata. Non c’è più tempo da aspettare.
Matteo Hallissey è segretario dei Radicali Italiani
Ruben Giovannoni è presidente del Comitato Ventotene